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Il fantasy rischia di essere (solo) una fuga?3 min read

28 Gennaio 2015 3 min read

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Il fantasy rischia di essere (solo) una fuga?3 min read

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Premetto che non ho nulla contro la letteratura d’evasione e l’evasione come fine della letteratura. Ciò che la signora Christie o il signor Simenon fanno, cioè polarizzare l’attenzione del lettore raccontando le loro storie di omicidi nella campagna inglese o nei quartieri di Parigi è notevole. Chiunque abbia la capacità di occupare il tempo di un noioso viaggio in treno o in aereo, risucchiando l’attenzione del lettore, immedesimandolo in luoghi e personaggi lontani, merita successo e anche ringraziamenti (sempre meglio leggere di una battaglia tra nani e orchi che digitare compulsivamente il telefonino). Mi chiedo però se il fantasy –  e in particolare quello italiano – abbia la voglia e gli strumenti di apportare una critica ai nostri tempi.

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Prendiamo le due saghe letterarie che hanno dominato in libreria e al cinema negli ultimi anni, Harry Potter e i romanzi di Tolkien: oltre a intrattenerci, ci hanno formato? Oltre a giocare le carte dell’archetipo, della eterna battaglia tra il bene e il male, queste opere ci hanno parlato dei nostri giorni o comunque, nel caso dello Hobbit e del Signore degli anelli, dei tempi in cui furono scritte? Non saprei. Chiariamo, le opere fantasy o più genericamente legate al fantastico, che hanno saputo descrivere i loro tempi e criticarli, ci sono. La prima che mi viene in mente è la trilogia di Gormenghats di  Mervyn Peake, composta di tre romanzi comparsi tra il 1946 e il 1959. L’ambientazione che caratterizza i primi due libri, è un immenso castello le cui dimensioni sembrano partorite dalla mente di Kafka. La trama, pur giocando su temi senza tempo come lo scontro tra giovani e vecchi, tra ciò che vuole rimanere eterno e rischia di sclerotizzarsi e l’istinto a rinnovarsi, è anche una critica verso gli usi di una società statica e classista come quella britannica.

Altro autore che ha piegato il fantastico per parlarci dei suoi tempi è Dino Buzzati. Ricordo un racconto dove Buzzati non solo, con la fantasia, interpretava la sua epoca, ma prefigurava la nostra e gli smartphone, immaginando di venire ibernato per scrivere un articolo sulla Milano del terzo millennio commissionato dal Corriere della sera.  Buzzati trova una città cambiata ovunque, tranne che alla Scala dove si registra una grande novità, i teletini: “Si tratta di un malcostume diffuso da pochi mesi in seguito di certi telefoni- televisori tascabili con i quali è possibile parlare e vedersi entro un raggio di trenta chilometri. Una moda diventata una sorta di frenesia. Le donne passano intere giornate a chiacchierare e a spettegolare con le amiche fornite anch’esse di teletini“.
In realtà anche oggi abbiamo autori italiani che attraverso il fantasy hanno interpretato i tempi correnti, uno su tutti Francesco Dimitri. Tuttavia, bazzicando il mondo del self publishing nostrano, imbattendomi in una miriade di autori indie – alcuni davvero bravi – che scrivono storie fantasy che sembrano pensate apposta per venire tradotte in kolossal cinematografico da un Peter Jackson, mi chiedo se alla fin fine, questo genere non stia sprofondando nell’evasione pura, rinunciando al gioco della critica, del confronto con i tempi correnti. Infondo questo dovrebbe fare un autore, a prescindere dal genere di appartenenza: sfidare orchi e troll sulla carta per vincere i demoni che ha dentro; ambientare storie in un altro mondo per poter esplorare e raccontare il proprio da una differente prospettiva.
O no?

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