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- Capitolo VII -
La Palude Maledetta
All'interno dell'accampamento persiano si
avvertiva un tedioso clima di agitazione,
oltremodo appesantito dal greve e sinistro
silenzio che spadroneggiava tiranno su ogni
tenda. Demarato, bardato in assetto da
battaglia, come da rigore per i generali
persiani, aveva atteso Serse davanti al
padiglione centrale per quasi un'ora. Era in
ritardo.
Gli abiti e la corazza che indossava, seppur
leggeri, amplificavano la percezione
dell'afa. Avvertiva la bocca riarsa
dall'esuberante consumo di vino della notte
precedente, e la calura estiva non aveva di
certo giovato ad attenuare il fastidio,
provocandogli la sgradevole sensazione
della lingua impastata, come se avesse
inghiottito un pugno di sabbia. Prese un
lungo sorso di vino diluito con acqua dal
suo otre, alleviando lo spirito e rinnovando
lo stato di controllata euforia che solo un
uomo dal fegato temprato poteva vantare.
Era uso comune fra le unità spartane
accostare l'alcol al coraggio, affinché il
timore della morte fosse divorato dalla sete
di sangue.
Idarne, secondo in comando degli
Immortali, non era passato inosservato al
suo sguardo. L'aveva scorto darsi da fare, di
buon mattino, chiamando a raccolta i soldati
sotto la sua giurisdizione. La scorta privata
di Serse veniva mobilitata solo di rado, ad
eccezione dell'addestramento giornaliero, a
meno che il tiranno non avesse urgenti
questioni da sbrigare di persona.
Inoltre, il greco ammise a se stesso di
avvertire l'ambigua mancanza del rapace
sguardo di Orachis fisso su di sé. L'assenza
di quella sgradevole consuetudine lo fece
sentire quasi nudo, stranamente a disagio.
Tutto ciò aveva il viscido sapore del
sotterfugio; Serse stava tramando qualcosa,
ed aveva deciso di escluderlo dai propri
piani.
Forse, i defezionanti fili che stava in segreto
tessendo con le Moire erano stati scoperti.
Pensò che Lachesi si stesse divertendo a
giocare col suo destino, vanificando il duro
lavoro svolto da Demarato per ottenere il
cotanto agognato epilogo che aveva deciso
di scrivere da sé.
Ma starsene lì impalato come un idiota,
quasi fosse un servo ingombrante, di poco
conto, non era di certo fra le mansioni che il
greco aveva promesso di offrire al re dei re.
Gli ordini del tiranno imponevano di partire
poco dopo l'alba, e così lo spartano avrebbe
fatto, ignorando la ridicola benedizione che
Serse amava tanto prodigare ai suoi soldati
prima di una battaglia. Era piuttosto
convinto del fatto che non ci sarebbe stata
una seconda occasione d'essere punito per
quella sorta d'insolenza, se tale potesse mai
essere ritenuta.
Volse presto i propri pensieri alla guerra che
lo attendeva, e con essa al modo in cui
avrebbe preferito spirare: se fra le braccia di
Atena, portato in gloria e osannato per la
maestria dimostrata sul campo, oppure
innalzato da Ares, per la brutalità provata
nello scontro.
Girò le spalle ai due Immortali di guardia
dinanzi al padiglione, sollevò lo scudo e si
tuffò fra le truppe radunate sul lato
occidentale dell'accampamento. Se ne
stavano quiete, in rigoroso silenzio; e questo
era un sintomo tutt'altro che positivo.
Rappresentava un evidente status di paura.
Secondo la visione spartana, l'unico uomo
che non aveva da parlare prima di una
battaglia, era quello consapevole della
propria morte; ed i morti si lasciano cadere
sul campo di battaglia come le foglie al
sussurro autunnale di Eolo.
Nonostante quell'atmosfera da funerale,
l'unità che gli era stata assegnata era molto
più imponente di quanto lo spartano avesse
creduto. Poco più di seimila uomini,
provenienti da tutto l'Impero Persiano, erano
radunati in attesa del suo arrivo. Benché su
di loro regnasse un'inquietante atmosfera da
lutto, nei loro occhi non colse la medesima
disperazione della notte precedente, bensì
un flebile barlume di speranza.
Aveva conquistato il loro rispetto.
Tutti confidavano nella sua gloriosa guida;
ma, come cuccioli inermi, lo fissavano nella
speranza che le parole che egli avrebbe
saputo dispensare, sarebbero state in grado
di donare loro l'essenziale audacia
necessaria per vincere quella battaglia;
contro un rivale che, sia sulla carta che sul
campo, aveva già dimostrato di essere
devastante come un'orda di dei della guerra.
Per un manciata di secondi ne rimase quasi
deluso, poiché già arreso all'idea che
avrebbe dovuto rimettere in ordine una
mandria di disperati, disorganizzata e
demoralizzata; invece, con sua grande
sorpresa, li aveva trovati in perfetto ordine,
pronti a marciare.
A sua insaputa, c'era stato un fervente
passaparola fra gli innumerevoli settori
dell'esercito, ed altri temerari si erano uniti
per l'assalto, disgregandosi dai ranghi ai
quali erano stati assegnati in precedenza.
Aveva davanti dei soldati decisi a
combattere, e non più dei semplici schiavi
obbligati a farlo.
Quella era a tutti gli effetti una
dimostrazione di profonda libertà, sotto una
spudorata tirannia: poiché spetta ad ogni
uomo libero, e a lui soltanto, decidere come
andarsene.
«Guardate i due compagni che avete ai
vostri fianchi, quelli che vi stanno dietro e
davanti. Ricordate i loro nomi, perché
quest'oggi costoro sono i vostri fratelli. Non
vi unisce un legame di sangue o religioso,
ma uno che può essere suggellato solo
all'alba di una battaglia, condividendo la
vittoria e la sconfitta col sudore della fronte
e l'unione degli spiriti. Oggi non siete
persiani, ma l'incarnazione di un'anima sola.
Siete come un mare che si prepara ad
inondare un'isola chiamata Termopili, e le
vostre lance saranno come furiose onde,
decise ad abbattersi come una tempesta
contro il muro spartano. Oggi, noi vinciamo
la paura. Oggi, noi combattiamo. Oggi, per
la gloria del domani!»
Demarato batté la lancia contro lo scudo,
quindi ordinò d'iniziare la marcia. Si sentì
privilegiato, ed onorato di poter far fronte ad
un nemico tanto potente con un'armata assai
numerosa: la più grande che avesse mai
avuto il privilegio di comandare da solo.
Nessun pentecontarca a ribadire i suoi
ordini, solo una manciata di guerrieri da lui
addestrati, pronti a rischiare il tutto per tutto.
Un sanguinolento sole disperdeva l'ombra
della notte ad occidente, macchiando il cielo
di sofferte tinte vermiglie. L'aria era pregna
di sentori sgradevoli, fra i quali prevaleva
un ristagnante tanfo di morte, quasi fosse il
fetido alito proveniente dalla bocca dell'ade,
che di nuovo si spalancava, pronta per
inghiottire altri cadaveri.
La battaglia era stata inclemente con le forze
persiane, ma Serse si era rifiutato di
sprecare energie per recuperare i brandelli
delle guarnigioni massacrate dagli elleni.
Per lui, i feriti non erano altro che un peso,
un'inutile dispendio di energie e risorse. Un
dono che i corvi avevano accettato di buon
cuore, banchettando festosi.
Mentre l'esercito marciava giù per il ruvido
sentiero, Demarato, solenne a capo della
fila, vide quegli stessi volatili dalle pance
rigonfie scrutarli dall'alto delle impietose
creste rocciose, oppure nascosti fra le fronde
degli alberi, con gli scuri occhi animati da
una perversa luce. Erano consapevoli del
fatto che ben presto il cibo sarebbe tornato
ad abbondare sui riarsi campi infernali
d'agosto. La carne greca era una rara portata
che lo spartano avrebbe di lì a poco
aggiunto all'ormai monotono menù orientale.
Man mano che incedevano verso la breccia
delle Termopili, però, col fianco meridionale
occupato da un quieto mare, il campo di
battaglia apparve soffocato da languide ed
innaturali fitte nubi gassose. Non un filo di
vento pareva aver il coraggio di disperderle.
Eolo stesso aveva timore di ciò che si
nascondeva dentro di esse.
Demarato si sforzò di continuare ad
avanzare, onde evitare che le truppe
risentissero anche solo di una sua minima
esitazione; il coraggio era come un sottile
filo: poteva essere spezzato con un nulla.
Eppure, avvertì nel passo dei suoi uomini il
peso dell'incertezza, del terrore per un
fenomeno naturale che non potevano
spiegarsi in una torrida giornata estiva. Ed il
genere umano, quando non sa spiegarsi
qualcosa, appronta nel terrore le proprie
caotiche teorie.
L'acre odore qui si faceva più inteso, ed
invadeva aggressivo le narici, scatenando un
sussulto dello stomaco. Seppur con la vista
precaria, lo spartano era certo che nessun
greco sarebbe stato tanto stolto da celarsi in
quella nube per tendere un agguato.
Nessuno avrebbe saputo controllare le
proprie facoltà mentali in quel lugubre
scenario.
Si stavano inoltrando in quella che era stata
battezzata, dai soldati fuggiti dallo scontro
prima di essere giustiziati dal tiranno, come
la Palude Maledetta, dove chiunque vi
facesse ingresso era destinato a permanere
in eterno. Demarato batté la lancia contro lo
scudo, ed apprezzò che il gesto fosse subito
ricambiato dai commilitoni. Lo fece a più
riprese, per rafforzare lo spirito delle truppe.
Chi non fosse scappato davanti a quel
macabro paesaggio, non l'avrebbe fatto
neanche sul campo. Il rintocco del legno
contro il legno echeggiò sino
all'accampamento greco, come fosse il
riverbero di vendetta dei morti.
(Continua)
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