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L'urlo disperato di Kunja sovrastò il lesto
incedere degli assalitori: Alpaux si era
letteralmente smaterializzato sotto il suo
inerme sguardo; al suo posto, la cenere ne
disegnava la sagoma al pari di un'ombra,
quasi il suo trapasso fosse stato troppo
rapido da ingannare la luce stessa. Kukura si
mise subito sull'attenti, ringhiando in ogni
direzione; anche i suoi sensi erano stati elusi.
Erano circondati.
JK fece qualche giro su se stesso, solo per
comprendere che i loro nemici li superavano
sia di numero che di stazza, ma erano
sorprendentemente leggeri, seppur avvolti in
delle sorte di cappotti metallici gialli, quasi
un tutt'uno con la loro pelle ed i volti
scavati, che parevano maschere. Gli occhi
scintillavano come carboni ardenti. Alcuni
si sorreggevano a dei bastoni metallici dalle
punte incandescenti, ora luminose, mentre
altri imbracciavano delle balestre con spessi
dardi seghettati.
Kunja fece per scattare in avanti, a machete
sfoderato, ma JK la trattenne a sé in un
guizzo felino.
«Bastardi musi gialli!» sbraitò, fendendo
l'aria con l'arma. Si dimenò con tutte le
proprie forze, ma una parte di lei fu grata
all'uomo; un solo passo falso, e avrebbe
seguito la sorte del Pegaso; sarebbe
trapassata ancor prima di avere il tempo di
rendersene conto. «Era innocente!»
Uno dei balestrieri le fece comprendere che
avessero ben poca intenzione di concedere
seconde possibilità, mandando a vuoto un
quadrello. Quello stesso proiettile provocò
un'esplosione a contatto con uno degli
alberi, contenuta, ma sufficiente a
disintegrare un corpo umano. Marcò un
profondo solco nella corteccia, provocando
una pioggia di foglie.
Un violento batter d'ali scosse la foresta, che
parve animata dal forte pigolare di molti
stormi; diede loro l'impressione che la
natura stessa soffrisse del danno arrecatole.
Poi, uno fra quelli che JK identificò come i
Yellowraith, emise dei versi
incomprensibili, monosillabici ed assai
simili tra loro, se non per la quasi
impercettibile variazione dei toni.
Kukura si gettò subito sotto le gambe di JK
in preda al terrore. Il pelo gli si era rizzato,
frattanto che tremava e uggiolava. Arrivò a
coprirsi gli occhi con le zampe.
Se solo l'uomo fosse stato del luogo, sarebbe
stato condizionato da tutte le leggende che
gravitavano attorno a quelle figure. Alcuni
sostenevano che fossero antichi spettri, altri
che Rātō Dēvatā li avesse vomitati fuori
come punizione per i suoi figli. Nei secoli,
le verità si erano alternate al pari del cambio
delle stagioni, ed ora nessuno conosceva più
la realtà dei fatti.
Quello che diede l'impressione di essere il
leader fece un passo in avanti e scandì un
ordine, sollevando lo scettro metallico verso
la postazione dei tre. Quello stesso comando
perse senso, subito dopo che le medesime
parole scaturirono fuori dalla bocca
dell'uomo dalla pelle rossiccia, ma in tono
interrogativo. Aveva il suono di un'aspra
minaccia.
Kunja impietrì. Fissò il compagno di
sventure negli occhi, ed il suo caratteristico
color ghiaccio le fece gelare il sangue nelle
vene. Era come se lui fosse in grado di
capirli. Poi, JK ruppe di nuovo il silenzio.
Diede ancora fiato ai suoi pensieri in quella
lingua incomprensibile, districandosi in una
vera e propria conversazione.
«Tu... li capisci?» mormorò la guida. «Sei
uno di loro?».
«Il loro idioma mi è comprensibile» rivelò
l'uomo. Subito dopo parve tradurre ciò che il
leader gli stava comunicando: «Ci
preleveranno, e staranno a sentire ciò che
abbiamo da dire. Dobbiamo collaborare,
poiché non ci resta altra scelta. Qualsiasi
azione riterranno dannosa nei loro confronti,
la pagheremo con la morte».
«Morire adesso o dopo... cambia qualcosa? I
Yellowraith hanno sterminato il mio
popolo» ringhiò Kunja.
«La tua stessa gente ha appena cercato di
ucciderti. A conti fatti, loro paiono meno
ostili, e più comprensivi. Ci stanno offrendo
una possibilità, ritengo che valga la pena
sentire quanto hanno da dire» puntualizzò.
Il cerchio di soldati si strinse attorno ai tre.
Quindi il leader indicò con un cenno della
mano uno dei suoi, prima di volgere le
spalle e riprendere a camminare nella
direzione dalla quale erano giunti.
L'uomo accettò le condizioni e, riuscendo a
strappare il machete dalle mani di Kunja, si
mostrò inoffensivo. Raccolse il cane fra le
sue braccia per cercare di tranquillizzarlo.
Tremava come una foglia. «Finché sarò al
tuo fianco, sarai al sicuro. Non permetterò
che vi facciano del male» aggiunse, ma
senza sapere che a distanza di un chilometro
da quell'affermazione non sarebbe più stato
in grado di mantenere la parola data. Rovinò
in avanti come un sacco di patate, senza
neanche avere il tempo di rendersi conto
dello svenimento.
Sprofondò nelle tenebre.
La brezza gelida che sferzava sul viso,
scompigliando i capelli, asciugando gli
occhi e privandolo dell'ossigeno, era una
sensazione unica, capace di togliergli ogni
parola di bocca. Per lui era la prima volta, e
gli sarebbe rimasta impressa per sempre
nella mente. Niente gli aveva mai trasmesso
quella vibrante sensazione di libertà, quasi
potesse d'un tratto spiccare il volo e librarsi
nel cielo come un uccello. In quel mondo
rosso, oltre ai droni, per quanto ne
emulassero l'aspetto, non ve ne era alcuno.
Per gli animali sarebbe occorso ancora del
tempo. La pelle s'irrigidì ed i peli gli si
rizzarono su tutto il corpo per l'emozione e
l'inebriante sensazione di fresco.
Ponendosi controvento, respirò a pieni
polmoni, osservando la terra scorrere rapida
sotto il profilo dello scafo. Poi, quando
l'hovercraft abbandonò la superficie
polverosa, uno spruzzo rinfrescante gli
investì il viso. L'acqua era salata.
«Il sogno della Alastor. Era anche il tuo,
mamma. Marte è terraformato» sussurrò Ed,
sollevando le braccia al cielo. Si sentiva
leggero, tanto da poter prendere il volo a
cavallo della prossima onda. «Vorrei potessi
essere qui per vederlo.»
«Rientra nella capsula. I livelli di anidride
carbonica sono ancora troppo elevati. Non
avere fretta: quando saremo tornati dalla
missione, qui sarà tutto come sulla Terra.»
affermò il pilota, Asair.
L'enorme campo base, con rampa di lancio
missilistico annessa, si ergeva all'orizzonte
come un antico castello medievale.
Tiranneggiava sul paesaggio, nascondendo
nella sua ombra centinaia di moduli a cupola
bianchi, collegati da stretti corridoi argentati.
La voce di Kunja era un distante sussurro; il
latrato di Kukura una feroce chiamata al
dovere. JK spalancò gli occhi.
L'ambiente che lo circondava era immerso
nella penombra, rischiarata dal tenue
bagliore di una lanterna a schermo. Il suo
corpo era legato ad un lettino metallico per
mezzo di fasce di cuoio ai polsi e alle
caviglie, al contrario di Kunja e Kukura,
tenuti prigionieri con delle catene. Una
coppia di Yellowraith le stavano addosso,
pungolandola con dei bastoni roventi,
intimandole con tono sommesso di
rispondere alle loro domande. Il loro modo
di fare e le loro azioni avevano qualcosa di
totalmente sconnesso, facendoli apparire
strani.
«Non conoscono la vostra lingua!» urlò JK
nel loro idioma. «Risponderò io... vi dirò
tutto ciò che vorrete.» affermò subito dopo,
senza smettere di agitarsi. Tutto quel
movimento gli provocò un intenso dolore
alla cervicale e all'osso sacro. Realizzò di
avere qualcosa collegato lungo la spina
dorsale, e percepì una distinta spinta ad
intervalli regolari.
La sua voce venne del tutto ignorata.
«Parlo con voi!» esclamò più volte, sempre
senza ricevere la loro attenzione. Sicché il
suo corpo prese ad avvertire un'angosciante
sensazione di pericolo, non tanto per sé, ma
per i suoi compagni. Percepì la temperatura
corporea innalzarsi e perle di sudore freddo
affollargli la fronte.
I muscoli s'irrigidirono e il respiro si fece
accelerato; a seguito di una prepotente
vampata di calore, come se la sua pelle
stesse bruciando dall'interno, cadde preda di
tremende convulsioni, di tale violenza da far
saltare le cinghie. Si tirò su animato da una
ferocia animale, avventandosi subito sugli
aguzzini. Le sue mani filtrarono attraverso
le loro sagome e, così come quelle di Kunja
e Kukura, si sgretolarono in migliaia di
quadretti luminosi, svanendo per sempre.
La lanterna a schermo lanciò poi un lampo
bianco, accecante, ed i confini di una
piccola stanza dalle pareti metalliche
vennero definiti. Il letto sul quale era
sdraiato sino a poc'anzi era l'unico oggetto
presente, oltre alla lanterna. Rimase
perplesso, confuso, almeno sinché avvertì
un liquido caldo colargli lungo la schiena ed
i glutei.
Si soffermò sui due tubicini che spuntavano
proprio in corrispondenza delle spinte
avvertite, e dei fori metallici presenti sulla
sua spina dorsale; una sostanza biancastra
stava continuando a fuoriuscire ad intervalli
regolari.
«Una semplice illusione. O anche dette
proiezioni calcolate della realtà» esordì lo
stesso figuro col quale aveva pattuito la
resa, varcando una breccia apertasi nel
muro, che si richiuse subito alle sue spalle.
Il suo corpo era bardato di metallo, mentre il
suo volto celato da quella che solo ora definì
una maschera mostruosa, gialla. Gli
conferiva dei lineamenti scavati, inquietanti.
I suoi occhi scintillavano come tizzoni
ardenti. «Stanno bene. Almeno per ora».
«Erano ologrammi?» suppose JK......
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