Giovanni Giuseppe Pintore
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3025
JK- 1 -
Quando il portellone saltò per aria, l'uomo
all'interno della capsula iperbarica sbarrò gli
occhi. I polmoni, atrofizzati dal lungo
sonno, si gonfiarono di aria gelida,
scatenando una pressante sensazione di
paralisi che fece emettere al risvegliato un
rantolo strozzato.
Le pupille si dilatarono per rispondere al
pressante bisogno di luce, indagando
confuse l'ambiente circostante, ove la
penombra appannata era rischiarata da un
pallido chiarore naturale.
Uno sciame di pensieri prese a ronzargli
caoticamente in testa, aggravando la già
prorompente e nauseante ondata di
sensazioni che l'organismo stava
riprendendo ad assimilare con notevole
fatica, dopo un'eterna stasi, sovrannaturale,
indotta dal gioiello della tecnologia
Asmoriana: la Criomadre.
Il brevetto prevedeva una momentanea
amnesia, stratagemma utile a preservare la
memoria del cervello che, sospeso
artificialmente in un limbo, si sarebbe
riavviato grazie al supporto di un'equipe
specializzata, proprio come un computer,
ma senza perdere i dati al suo interno.
«Buongiorno, JK» esordì una voce maschile
dal timbro impostato, in lontananza.
«Controlla il respiro col naso. Chiudi gli
occhi: non sono ancora pronti alla forza
dell'atmosfera. Concentrati sulla mia voce».
L'uomo venne scosso da un brivido. Percepì
sulla pelle uno sbuffo gelido.
Non seppe per quale motivo, ma preso da un
gran timore seguì le indicazioni della voce.
Il respiro ed i battiti del cuore si
regolarizzarono. Gli occhi smisero di
bruciare. I suoni, prima ovattati, si fecero
ora più nitidi.
Udì poi l'ululato del vento, e lo riconobbe.
JK provò a parlare, ma dalla sua bocca
vennero fuori solo dei vagiti. Sulle labbra
aveva un sapore amarognolo, che sapeva di
conoscere, ma che gli riusciva impossibile
associare ad alcun nome o definizione.
«Rilassati, JK. Le tue corde vocali sono
ancora rigide, sforzarle potrebbe
danneggiarle. L'equipe della Alastor si
occuperà di te al più presto» La voce riuscì a
quietarlo, ma la reminiscenza di una luce
accecante lo assalì, con un trascinante senso
di paura, al contempo figlia di una
sconfinata curiosità.
“Un maschio!” sentenziò una voce giunta
proprio oltre quello straordinario bagliore.
«Bentornato ad Asmori, JK».
Ritornò alla realtà, attraversando il fascio
luminoso, come scagliato da una catapulta.
«Amna thyo henemy» pronunciò una
seconda voce, soffocata, che sino a quel
momento aveva taciuto, nascosta sotto un
pesante vestiario di strisce di pelle che
assimilava la sua figura ad una sorta di
mummia. Un largo respiratore da pilota,
occhiali annessi, gli nascondeva il viso. Ma
il machete insanguinato che stringeva nella
mano sinistra, pur se abbassato, avrebbe
dato a chiunque una sensazione sgradevole.
Tuttavia, l'uomo era incapace di focalizzare
la figura del suo nuovo interlocutore.
Comprendeva appieno la lingua della prima
voce, l'italiano, ma per la seconda aveva
come la vaga sensazione di conoscerla, pur
faticando a comprenderla.
Scosse istintivamente il capo a causa di un
altro brivido, e solo allora si rese conto di
essere integralmente nudo.
Avrebbe voluto parlare, ma dalla sua bocca
uscì l'ennesimo rantolo.
«Rilassati, JK. Le tue corde vocali sono
ancora rigide, sforzarle potrebbe
danneggiarle. L'equipe della Alastor si
occuperà di te al più presto» ripeté la voce,
ora intensa: giungeva dagli altoparlanti
installati sui fianchi del poggiatesta della
capsula, ritmata dal bagliore di un
lampeggiante.
Il lettino era inclinato di sessanta gradi,
facendo risultare il suo corpo sdraiato in
diagonale. Provò a stento una sensazione di
vertigine quando, nel tentativo di muoversi,
l'intera struttura si raddrizzò sino a
raggiungere la posizione verticale,
proiettandolo in avanti.
La procedura avrebbe voluto la presenza di
uno staff specializzato, pronto ad afferrarlo,
ed il suo corpo andò a ricercare appunto
quel sostegno, inutilmente. Cadde di peso
sul freddo pavimento di metallo, sbattendo
la faccia. Le orecchie gli fischiarono a causa
dell'impatto, ma JK non avvertì alcun dolore.
“Avanti, Ed: Corri! Non vorrai essere
l'ultimo a vedere la Luna?!” Il buio venne
d'un tratto squarciato dall'intenso bagliore
dei neon di un bianco corridoio dalle ampie
vetrate; fuori, quello che poteva essere
considerato il nulla più complesso in
assoluto: lo spazio e le stelle. Lontane.
Vicine. Milioni. Un bambino gli dava le
spalle, inseguendo un gruppo già svanito
oltre la curva del percorso.
«Khmon: Wiev tugò!» ribadì lo sconosciuto
col machete mentre estraeva una casacca di
pelliccia dal borsone che portava a tracolla,
buttandogliela addosso, prima di tirarlo su
di peso. JK però barcollava, faticando a
rimanere in equilibrio. Cadde altre volte,
costringendo il suo aiutante a compiere un
enorme sforzo per sollevare il suo peso. Era
più basso e, malgrado gli abiti gli dessero
una parvenza di robustezza, doveva essere
piuttosto esile.
Una lunga serie di fastidiosi fischi urtarono i
sensi del neo-risvegliato, mandando in
confusione la sua coordinazione e
costringendolo a socchiudere gli occhi. La
penombra cedeva il passo ad una luce grigia
ma intensa.
«Dhonluck descai!» gli intimò, premendo la
mano sulla sua nuca, costringendolo a
fissare il terreno. Il metallo appariva
squarciato, mutando in roccia e poi in neve,
gelida a contatto con i piedi scalzi dell'uomo.
Ad ogni passo provava la stessa sensazione
di una miriade di aghi che gli pungevano la
pianta del piede. La casacca di pelli gli
venne estesa sin sopra il capo.
«Giamp! JK!» ripeté più volte la sua guida,
spingendolo contro qualcosa da cui veniva
un gran calore.
L'uomo afferrò quella che riconobbe come
una criniera, quindi si diede l'istintivo
slancio per salire, supportato dal basso dallo
sconosciuto.
“Sulla Terra ne hanno anche di veri... Riesci
ad immaginarlo, Ed?”.
Il paesaggio innevato mutò all'improvviso in
uno brullo e polveroso, dalla tonalità
rossiccia, con altissime piante spinose
sparse in ogni dove. Un fiume verdognolo
scorreva a metà della pianura. Il cielo era
coperto da nubi spumose. Una donna dal
corpo slanciato, in top, dai ridenti occhi
arancioni e dai capelli viola gli scoccò un
gran sorriso. Montava un cavallo in tutto e
per tutto simile ad uno vero, tuttavia il
rumore prodotto dagli ingranaggi
sottolineava la presenza di un esoscheletro
artificiale sotto gli strati di pelle surrogata.
Il calore del liscio manto della bestia a
contatto con la sua pelle ed il suo brusco
movimento lo riportarono alla realtà. La sua
guida gli stava dietro, tenendo ben salde le
redini, premendo il proprio corpo contro il
suo per evitare che cadesse.
JK avvertì un insolito calore scivolargli al
pari di un liquido lungo la schiena e sui
glutei, poi ancora a tratti sulle cosce.
Il cavallo pezzato s'involò giù per la discesa,
slittando a tratti sulla neve, ma riuscendo a
mantenere l'equilibrio con notevole
maestria. Poi eseguì un lungo balzo verso il
vuoto e spiegò con un gesto rapido le ampie
ali, che sino a quel momento aveva avvolte
attorno al proprio ventre, per preservare il
calore. Prese a planare a grande velocità
oltre il paesaggio montano, verso lande
verdeggianti, distanti chilometri.
In lontananza una violenta tempesta si stava
abbattendo sul territorio, muovendosi rapida
proprio verso la loro direzione. Pareva un
ciclone nel pieno della sua potenza.
L'uomo sgranò gli occhi. La lunga criniera
bianca del destriero arrivava sino a metà
della schiena dell'animale, che risultava ben
più lungo ed alto di un normale cavallo. Era
più vicino a ciò che la mitologia greca
definiva come il Pegaso. Le iridi gli si
seccarono subito.
«Klous yorais!» gli disse la guida,
coprendogli meglio la testa. L'aria gelida
che sferzava senza filtri sul suo corpo ebbe
lo stesso effetto di decine di lame a fil di
pelle. L'uomo tuttavia si sforzò di non
urlare: le sue corde vocali avrebbero potuto
danneggiarsi per lo sforzo. Tremò come una
foglia per tutto il tragitto, in balia di attimi
sfuggenti che lo alienavano dalla realtà,
concedendogli a momenti alterni di
percepire quel che accadeva attorno a sé.
La guida aveva continuato a parlare, ma
nessuna delle sue parole era stata afferrata
da JK.
Rivide la donna dagli occhi arancioni, che lo
abbracciava, lo baciava sulla fronte con
dolcezza e gli mostrava la bellezza di quel
mondo dal cielo coperto di nuvole e dai
colori vividi. La sentiva sempre chiamarlo
“Ed”, ma le visioni erano instabili, come se
la sua mente faticasse a ricomporle.
Il volo, condizionato da molteplici
turbolenze, durò poco più di un'ora. Il
Pegaso atterrò bruscamente, dopo aver
sbattuto più volte le ali, continuando la
corsa a grande velocità. Decelerò sino ad
andare al trotto. Si fermò poco dopo, assai
provato dall'ardua impresa appena compiuta.
L'uomo, svenuto a causa del freddo, scivolò
non appena privato della presa della propria
guida. Ricadde di peso sul fianco,
sprofondando in mezzo metro d'acqua, che
gli attutì la botta.
Lo sconosciuto lo tirò fuori prima che
annegasse, in tempo per vederlo vomitare
nient'altro che liquidi e sangue. Le iridi di
JK avevano raggiunto una tonalità vicina al
bianco.
«Ouldon!» lo esortò la voce...
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