Le assaggiatrici di Isabella Postorino: i toni grigi dell’esistenza e il nero della Storia3 min read
Reading Time: 3 minutesLe assaggiatrici è un romanzo scritto da Isabella Postorino, editor, già scrittrice con una discreta bibliografia alle spalle, e ora con quest’ultimo testo, vincitrice del premio Campiello. Il romanzo è stato un successo e continua ad esserlo. La storia, che riprende quella originale raccontata da tale Margot Wölk, è quella di Rosa Sauer, giovane tedesca cresciuta nella Germania nazista che viene chiamata a far parte delle assaggiatrici, una squadra di ragazze che doveva assaggiare ogni piatto destinato alla tavola di Hitler per prevenire un eventuale avvelenamento del fuhrer. La materia del romanzo è interessante come la sua ambientazione. Il nazismo è una delle pagine più oscure della nostra Storia e il fatto che Hitler aveva delle assaggiatrici era una cosa che molti ignoravano.

Il romanzo della Postorino, però, non è un thriller ambientato durante la seconda guerra mondiale, quanto l’indagine psicologica di un popolo – quello tedesco – che ha incarnato il male più di ogni altro, e che con quello stesso male ha dovuto fare i conti. Rosa non si sente nazista. Non lo è perché già suo padre si era espresso in termini critici verso il nazionalsocialismo, non lo è per motivi sentimentali – suo marito, Gregor, è partito al fronte per combattere i russi e lei si sente depredata dal nazismo della sua vita matrimoniale -, non lo è perché i nazisti la trattano come cavia costringendola a mangiare cibo che potrebbe essere avvelenato. Ma Rosa non lo è anche perché riconosce nel nazismo un movimento politico – un culto? – disumano. Attraverso suo marito e poi un comandante delle SS, Albert Ziegler con cui intratterrà un rapporto stretto, verrà a sapere delle atrocità che i suoi connazionali hanno commesso in Russia e stanno commettendo nei confronti degli ebrei.
La realtà dei campi di concentramento emerge gradualmente nelle pagine del romanzo come una verità dapprima volontariamente travisata dai tedeschi perché troppo orribile da guardare in faccia. Alla fine, il romanzo sembra delineare la figura di una donna irrisolta: capace di giudicare criticamente il suo paese, ma incapace di schierarsi definitivamente contro di esso; legata a suo marito e allo stesso tempo al comandante delle SS la cui relazione è a due facce: da una parte ne è attratta dall’altra non può non ritenerlo un’esponente di quella Germania in cui non si riconosce e che la usa come cavia. Il problema è che anche il romanzo è un po’ irrisolto. Per quanto scritto bene e tratti una materia interessante, non si comprende cosa voglia dire l’autrice.
Rosa si muove nel mezzo – un po’ come il testo che sfiora vari generi – è vittima di un sistema ma ne è anche parte funzionale in quanto, attraverso il suo corpo che si offre come cavia, partecipa alla sussistenza di quello stesso sistema. Se volessimo render metafora il tema del cibo e della digestione, Rosa, nemmeno a guerra terminata e da anziana, riesce a digerire il suo passato, a farsene una ragione. La sua esistenza sembra essersi fermata al momento in cui, seduta in mensa, sotto lo sguardo delle SS infila la forchetta in bocca, mastica e deglutisce il cibo, lo sente discendere in sé e cerca di prevenire i sintomi di un eventuale avvelenamento.
Anche a guerra terminata, Rosa rimane seduta e sente il passato lavorare dentro di sé senza riuscire a darne una forma. Si è seduta alla mensa del lupo e ne ha assaggiato il banchetto prelibato, non per generosità del lupo o perché lupo ella stessa, ma in quanto cavia.
Forse la domanda con cui ci vuole lasciare il romanzo è la seguente: quanto lo status di vittime ci risparmia da quello di carnefici? Quanto il ruolo di cavia di Rosa l’ha esentata dalla possibilità di opporsi al nazismo?
Nuotiamo sempre nel grigio, anche quando la Storia è più nera.
È questo che ha voluto dire, Isabella Postorino?