Il romanzo perfetto, ovvero: L’invenzione di Morel3 min read
Reading Time: 3 minutesCosa fa di un romanzo un romanzo perfetto?
Non la lunghezza.
Non il virtuosismo linguistico, né lo sperimentalismo (qualcuno si azzarderebbe a definire l’Ulisse di Joyce “perfetto”?). Anzi, direi che l’ardimento letterario e l’ansia dell’autore di spezzare gli schemi sono nemici della perfezione romanzesca.
Io penso che il romanzo perfetto debba essere narrato da una lingua comprensibile, cioè che si lasci leggere, da una trama che costruisca una progressiva immedesimazione del lettore con la vicenda, da una buona dose di evocazione irradiata dalle parole, senza essere esplicitata sulla pagina e poi da un finale che lascia sospesi, che getti il lettore in una dimensione di assoluto.
Sempre prendendo in causa James Joyce, penso che con il racconto lungo I morti, lui abbia scritto qualcosa di perfetto (mentre con l’Ulisse ha scritto qualcosa di virtuoso e sorprendente, ma alla fine irrisolto).
Anche l’autore argentino Adolfo Bioy Casares (1914-1999) ha raggiunto la perfezione. Con il romanzo: L’invenzione di Morel.

Va da sé che se dico che un romanzo è perfetto, significa che sto consigliando di leggerlo. Nel caso de L’invenzione di Morel, l’unica premessa che mi sento di fare, prima che vi rechiate in libreria, è che quella dell’autore è una prosa raffinata, intellettuale. È semplice nella costruzione della frase, ma prende la realtà di sponda, da un’angolazione particolare e non di petto, un po’ come faceva Jorge Louis Borges nei suoi racconti fantastici e, non a caso, Borges amava molto Adolfo Bioy Casares ed era stato tra i primi a definire L’invenzione di Morel un romanzo perfetto.

Anche questo romanzo, come i racconti borgesiani, tocca i temi del fantastico e dell’avventura. Quello che leggiamo, difatti, è il diario di un uomo fuggito dalla prigione in una misteriosa isola della Polinesia alienata dal resto del mondo da uno strano alternarsi di maree. L’isola è misteriosa anche per altri motivi. Ha una vegetazione a tratti rigogliosa e multiforme a tratti putrescente. Addirittura nel diario si parla di due soli, l’uno sopra l’altro, che rendono caldissimi i giorni, e due lune che gettano come un bagliore polare su tutto il cielo notturno. Ma il mistero più grande riguarda un gruppo di turisti che occupano uno strano edificio, simile a un tempio, che il fuggiasco chiama “museo”. I turisti parlano francese e tra loro c’è un certo Morel. Il protagonista li spia, con la discrezione e il timore dell’uomo che sente su di sé il fiato della legge. Quando s’imbatte in una donna di nome Faustine che prende ogni giorno il sole stesa sulle rocce, se ne innamora. Cerca di attirare la sua attenzione, addirittura di annunciarsi con una composizione floreale, ma Faustine, lo ignora, si comporta come se non esistesse, e lo stesso fanno gli altri turisti.
Ora, mi fermo qui perché aggiungere altro significherebbe spoilerare e questo è uno di quei romanzi che si edifica pagina dopo pagina, fatto dopo fatto, mistero dopo mistero, sulla storia. Posso solo dire che questo romanzo parla di amore e solitudine, eternità del corpo ed eternità dello spirito forse come solo Kafka e appunto Borges erano riusciti a fare in passato. L’invenzione di Morel, pubblicato nel 1940 e riproposto in una nuova traduzione da Sur, è uno di quei romanzi ignorati ma fondamentali, e che hanno anticipato veramente temi ricorrenti nella fantascienza che sarebbe seguita e che avremmo ritrovato in Dick e anche in produzioni televisive come Lost e Westworld.