The Princess Bride, la storia fantastica di William Goldman3 min read
Reading Time: 3 minutesWilliam Goldman è morto il 16 novembre nella sua casa di New York, a 87 anni. È una grande perdita per la storia del cinema, come ricordato negli articoli che non hanno tardato a comparire sulle testate nazionali. Sono di Goldman la sceneggiatura di Misery non deve morire e di diverse pellicole ispirate ai romanzi di Stephen King, e di Tutti gli uomini del presidente e Butch Cassidy, che gli sono valsi l’Oscar per la sceneggiatura nel 1969 e nel 1971.
William Goldman è nato a Chicago il 12 agosto del 1931, ha prestato servizio al Pentagono negli anni ’50 e ha pubblicato il suo primo romanzo, The temple of gold, nel 1956. All’esordio sono seguiti altri romanzi, mai pubblicati in Italia, e una carriera di comprovato successo nella scrittura per il cinema.
Non è tuttavia per le sue pellicole che la perdita di Goldman mi ha tanto rattristata; nella nicchia degli appassionati del fantastico il suo nome non è associato alla sua lunga filmografia, ma a un unico titolo, di cui firmerà anche l’omonima sceneggiatura nel 1987: The Princess Bride (1973), meglio conosciuto in Italia come La storia fantastica.
Sicuramente il suo romanzo più amato e conosciuto, La Principessa Sposa è stato scritto per le due figlie, che all’epoca avevano sette e quattro anni. Lo scrittore promise di scrivere una storia per loro, e chiese chi dovesse essere la protagonista. Una rispose “una principessa”, l’altra “una sposa”. “Bene” rispose lui, “Sarà il titolo del libro”.
Con un’allegra ironia assimilabile al Terry Pratchett del Mondo Disco, La Principessa Sposa è una favola che segue molti dei topos più tipici della letteratura fantastica, prendendo stereotipi estremizzati per tirarne fuori personaggi iconici e ben caratterizzati, attraverso i quali vengono indagati più nel profondo quegli stessi stereotipi, non mancando poi di riflessioni sulle funzioni narrative.
Il romanzo inizia con una cornice in cui il narratore in prima persona, l’autore stesso, ci parla di un libro che adorava quando era piccolo, e che suo padre gli aveva letto quando era rimasto immobilizzato a casa a causa di una malattia, La principessa sposa, – pare superfluo specificarlo, qui il metaletterario si spreca. Non ha idea di dove sia finito quel libro, e se ne spiace, perché vorrebbe regalarlo al figlio di dieci anni per rinforzare il loro legame, arricchendolo coi ricordi di una lettura condivisa. Ma quando finalmente riesce a entrare in possesso di una copia di quel libro, lo scopre assai diverso da come se lo ricordava. Molto più lungo, decisamente troppo concentrato sulle considerazioni di carattere storico, un’accozzaglia di descrizioni caricaturali sulla nobiltà dell’epoca, ed è evidente che l’intento dell’autore si discosta molto dall’intrattenimento di un ragazzino. Il narratore capisce che il padre gli aveva ampiamente censurato la lettura, epurandola di decine di pagine e arricchendola di altrettante. E così inizia a raccontare la storia per come se la ricorda, così come il padre gliel’aveva proposta, ed è così che ha finalmente inizio La principessa sposa.
Hanno inizio le vicissitudini della bellissima Buttercup, dell’eroico Westley, dell’indomito spadaccino in cerca di vendetta Inigo Montoya, del gigante stritolatore Fezzik che recita rime casuali nella sua testa, senza poterle condividere con nessuno. Seguendo la scia delle favole per l’infanzia, Goldman ci racconta di pirati, rapimenti, duelli, virtù impossibili e amore incrollabile. Eppure, nonostante i toni e gli scenari da fiaba, La principessa sposa non è una favola innocente in cui tutto va per il meglio; come l’autore stesso ci ricorda in un commovente appunto, la vita è ingiusta, e cose sbagliate accadono a persone sbagliate, i giusti pagano e i malvagi festeggiano. Che il lettore soffra, e impari a soffrire.
È un romanzo che dice molto, e lo fa con un’allegra semplicità che si amalgama curiosamente bene con la maestosità delle immagini evocate. Ed è la ragione primaria per cui dobbiamo tutti accettare che con Goldman abbiamo perso qualcosa d’importante.