Pulp – Una storia del XX secolo di Charles Bukowski – recensione3 min read
Reading Time: 3 minutesCharles Bukowski è nato nel 1920 ad Andernach, in Germania, ed è morto a San Pedro nel 1994. In vita è stato un poeta, uno scrittore, un vagabondo, un alcolizzato, è stato l’intera Hollywood. Esponente del realismo sporco, termine coniato negli anni ’70-’80 che sta a indicare la produzione di quegli autori che si concentrano sul lato marcio dei loro personaggi, che intendono ridurre la narrazione ai suoi elementi fondamentali.
Pulp – Una storia del XX secolo è il suo ultimo libro, pubblicato postumo dalla moglie Linda, ed è arrivato in Italia con Feltrinelli nel 1995, nella traduzione di Simona Viciani. Il protagonista Nick Belane, detective privato ultracinquantenne con un discreto problema etilico, è un quasi-alterego dello stesso Bukowski, che già non è nuovo all’autofiction, ed è solito infilarsi comodamente nel mezzo delle sue narrazioni.
Le vicissitudini di Nick Belane sono tante, strane e variegate. Prima di tutto viene contattato dalla Morte – una donna bellissima – perché lo aiuti a rintracciare Céline, che è riuscito a sfuggirle e calca le strade del mondo dei vivi anche se dovrebbe essere morto da decenni; poi deve trovare un certo Passero Rosso; poi un certo signor Grovers gli chiede assistenza per liberarsi di un’aliena che l’ha preso in simpatia e non vuole lasciarlo stare; qualche storia di tradimenti, sfratto, mafietta, un paio di litigi in squallide bettole. Nick fa una vita piena, in un certo senso. Vuota ma piena.
L’aspetto peculiare di questo libro è che funziona nonostante Bukowski non si sforzi affatto di legare assieme i vari elementi. Si chiude un caso? Perfetto, ne arriva un altro ancora più strano, non c’è bisogno di una connessione logica tra le varie amenità che capitano a Nick. In un modo o nell’altro Nick va avanti, un po’ per fortuna e un po’ per forzatura – stando parecchio simpatico sia alla signora Morte che all’aliena di cui Grovers vuole liberarsi, è capitato che le due gli salvassero la vita, permettendo alla trama di portarsi avanti ancora per qualche decina di pagine.
Bukowski ha preso le regole basilari della scrittura, i manuali, la semplice logica e ha deciso di fregarsene, di scrivere ciò che gli andava, in un modo ingenuo e funzionale che mi ricorda la Zazie di Queneau. Non si tratta di pigre esercitazioni, ma di un gioco consapevole su quello che si può e non si può fare con carta e inchiostro, uno scherzare sull’eccesso di ordine della vita e della narrazione. Bukowski non era uno sprovveduto, anzi.
Pulp è una lettura svelta, allegra, piacevole. Assurdo e ironico, qualche volta l’umanità di Charles-Nick prende il sopravvento, e ti ritrovi a rileggere una stessa riflessione per tre-quattro volte perché penetri a fondo, e ti dia un pugno di realismo prima di trascinarti avanti, verso un’altra folle e ridanciana avventura da detective incompetente.
“Spesso i momenti migliori della vita erano quando non facevi un bel niente, rimanevi a rimuginare, a meditare. Voglio dire, ammettiamo che capiate che sia tutto privo di senso, in questo caso non può essere totalmente privo di senso perché tu sei cosciente di questa profonda inutilità e questa coscienza di inutilità alla fine quasi restituisce un senso a tutto. Capite cosa voglio dire? Un ottimistico pessimismo.”