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Perché la piccola editoria non è un ripiego5 min read

24 Aprile 2018 5 min read

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Perché la piccola editoria non è un ripiego5 min read

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Leggo da sempre, e più o meno da sempre scrivo. Ovvio, questo “da sempre” va inteso come il naturale seguito del momento in cui ho iniziato a distinguere le lettere e a destreggiarmi con la penna sulle pagine di innumerevoli quaderni. Mi piacciono le parole, fruite o versate. E com’è naturale che sia, poiché l’essere umano tende a compattarsi in gruppi che condividano e sostengono le sue passioni, tra le mie amicizie figurano un bel po’ di creativi, un sacco di lettori e qualche aspirante (e non) scrittore.
Con questi ultimi chiacchiero spesso di libri e di editoria. La filiera editoriale, con tutti i suoi macchinosi aspetti, ha su di me un fascino particolare. Negli scorsi mesi ho frequentato il corso per redattori editoriali indetto dalla Lindau, e quando ci hanno portati in una cartiera, non so, mi sono sentita un pochino come a Hogwarts. È qua che accade la magia, mi dicevo.
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L’editoria nella sua più schietta natura di industria e produzione riveste per me un fascino che vedo riflesso in un numero piuttosto ristretto di lettori, di solito incontrati grazie al lit-blogging. Non è soltanto il lettore medio a non conoscere granché le peculiarità dell’editoria, ma pure il lettore forte e quello appassionato, quello che passerebbe ore a scandagliare gli scaffali e quello che scartabella con inalterato interesse siti di recensioni e testate letterarie. Non saranno poi così tanti a interessarsi al concetto di decrescita editoriale, del sistema dei resi, di diritto d’autore e quant’altro. Quando chiacchiero di siffatti argomenti, di solito è con pochi fanatici e qualche professionista del settore.

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Uno degli aspetti che trovo più interessanti del mondo editoriale contemporaneo sta nella nascita, nella costante crescita e nell’evoluzione di un’editoria indipendente sfaccettata, pronta alla sperimentazione, accolta dal pubblico da una sempre maggiore considerazione.
Chiacchieravo, qualche giorno fa, con un’amica aspirante autrice in procinto di mandare il proprio manoscritto agli editori. Un romanzo intenso, non di genere, tra storia recente e denuncia sociale. Una roba ganza, se volete saperlo. Ad ogni modo, tra le varie case editrici generaliste che conosciamo tutti, mentre sorseggiavamo i nostri cappuccini hipster al latte di soia, tra un grande editore e l’altro inizio a elencargliene alcuni indipendenti, piccoli. Un paio li conosceva, altri non li aveva mai sentiti nominare.

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Eppure, pur di fronte al suo scetticismo – quando hai tra le mani una storia in cui credi, è difficile rassegnarsi a una soluzione che può sembrare un ripiego, e di fronte alla capillare distribuzione di Garzanti e Mondadori, è ovvio che un editore nato da pochi anni, che trovi soltanto nelle librerie indipendenti specializzate possa sembrare un pessimo affare – ho insistito perché considerasse gli editori cui le accennavo. Più o meno giovani, più o meno piccoli. E tutti con una specifica identità, una linea editoriale precisa, un deciso e ineguagliabile impegno nel supportare i propri autori. Perché se pubblichi centinaia di titoli ogni anno, è ben probabile che di mezzo ci sia qualche libro “meh”, e non è detto che tu da editore ci creda poi granché. Ma se pubblichi dai, putiamo caso, dai 4 ai 10 titoli, allora in quei titoli ci devi credere per forza. È a loro che ti appoggi interamente, li devi promuovere con tutto te stesso, vuoi che siano il baluardo della tua idea di editoria.
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Nel mio piccolo scrivo, e come buona parte di coloro che scrivono e hanno un’eccessiva fiducia in se stessi, spero un giorno di raggiungere punti di decenza sufficienti a una pubblicazione tradizionale. L’altra mattina, mentre chiacchieravo con la mia amica, sono passata dalla modalità “consulente editoriale” a quella di “aspirante autrice” e le ho detto, scoprendomi curiosamente sincera, che se un giorno avessi mandato in giro un manoscritto e a rispondermi positivamente ci fossero stati sia grandi editori che gli editori indipendenti che seguo e apprezzo, probabilmente avrei scelto di pubblicare coi secondi. La distribuzione è importante, siamo tutti d’accordo, ma non è tutto.
Prendiamo Dalle rovine di Luciano Funetta, o XXI secolo di Paolo Zardi; prendiamo un paio di titoli pescati dai dodici candidati al Premio Strega, Dal tuo terrazzo si vede casa mia di Elvis Malaj e La madre di Eva di Silvia Ferreri. Casi letterari, candidati al Premio Strega.

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L’editoria indipendente, in Italia, è in grado di agire come una promessa di dedizione verso i suoi autori e come garanzia di qualità per i lettori. Per quanto mi riguarda, e per l’idea che mi sono fatta del Magico Mondo della Filiera Editoriale, scegliere un piccolo editore indipendente non è una scelta di ripiego, ma una scelta oculata, più che plausibile in un panorama in cui i grandi editori pubblicano più che possono e non possono dedicare un gran tempo ai loro autori. Nella piccola editoria, quando si tratta di buona piccola editoria, ogni autore è un autore di punta.

Con questo non voglio affatto dire che propendere per la pubblicazione con grandi editori sia la scelta peggiore, tutt’altro. È una possibilità – un attimo più remota, peraltro, ma non è questo il punto – tra altre possibilità, coi suoi innegabili pro e contro. Quello che mi premeva sottolineare è piuttosto il lato propositivo e luminoso di un percorso, quello dei piccoli editori, che spesso viene visto come secondario, con quel sospiro rassegnato da seconda scelta, da gavetta obbligata.
Ma se pensiamo ad Amelie Nothomb, che da decenni continua a pubblicare con Voland, di certo non per carenza di opzioni, a me viene da dire che deve avere delle ottime ragioni. E io, personalmente, sento di condividerle.

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(Almeno in teoria; nella pratica scribacchio e mi areno, ma a livello puramente ideologico, condivido).

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