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Quanto deve essere intelligente una intelligenza artificiale?4 min read

31 Marzo 2018 4 min read

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Quanto deve essere intelligente una intelligenza artificiale?4 min read

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Un tema classico di molti romanzi e film di fantascienza è quello del computer, o del robot che assume una consapevolezza e diventa una forma di vita super-intelligente che si ribella al suo creatore. L’idea di una mente pensante che non sia ostacolata dai concetti della morale, e che spesso abbia solo l’obiettivo del controllo sulla società umana continua a turbare i sogni degli scrittori e dei lettori, ormai dall’inizio del Novecento. Tuttavia, man mano che il tema diventa sempre più comune, i fan iniziano ad alzare le loro aspettative sull’autenticità e sul realismo dell’intelligenza artificiale, e si aspettano qualcosa di più del semplice robot che emerge dalla notte cercando di fare fuori il protagonista della storia.
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Il problema principale per uno scrittore è quello di rendere bene ciò che spaventa di più di un’intelligenza artificiale, ossia il fatto che essa non commette errori. A differenza degli umani che perdono i dettagli, o fanno grandi salti in termini di logica, a causa delle emozioni o di una cattiva pianificazione, una mente informatizzata dovrebbe pensare troppo velocemente per fare errori e dovrebbe superare agilmente i freni umani che la renderebbero cieca alla sua stessa idiozia. Perciò, i semplici trucchi provenienti da altri generi letterari che molti scrittori impiegano per dare al protagonista una chance di vittoria, sono inaccettabili. L’immagine del cattivo arrogante a cui piace parlare per troppo tempo e che dà il tempo necessario all’eroe di liberarsi e capovolgere una situazione di stallo non basta per il perfezionismo che la mente di un computer per definizione possiede. In più, la complessità richiesta per l’esistenza stessa di una I.A. permetterebbe la riscrittura delle proprie imperfezioni. Come fare quindi a creare una creatura imbattibile e comunque dare una possibilità a un protagonista di uscirne fuori?
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Una possibile soluzione è far vincere la I.A., almeno in un primo momento. Sembra assurdo, ma può essere interessante mostrare un protagonista che pensa di aver vinto finché cade in una trappola o scopre che ha lavorato per tutto il tempo dalla parte sbagliata. Questo è il modo più semplice per rendere l’I.A. infallibile e quindi non violarne la sua autenticità, poiché non fa errori nella sua pianificazione. Un esempio è il classico 2001 Odissea nello spazio, in cui l’unico modo per sfuggire dalle grinfie di HAL9000 è quello di disattivarlo perdendosi nello spazio profondo.
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La seconda soluzione è non far discutere la I.A. con il protagonista. Questo non significa che la I.A. si comporterà come un personaggio meno importante, ma può significare che ci deve essere un’altra ragione per la quale la I.A. si trova sulla via del protagonista. Questo può manifestarsi sotto forma di dispositivi, protocolli o firewalls, che hanno l’intenzione di fermare il personaggio principale, o la I.A. può possedere strumenti o abilità richieste necessarie alla storia, ma a cui il protagonista non riesce ad accedere. Questo è il caso di Mr. Anderson in Matrix, interessato a difendere la matrice e per questo a far fuori Neo e i suoi comprimari. Un romanzo italiano che anticipa queste tematiche sulla realtà virtuale capace di difendersi e riscriversi da sola, con tanto di virus e affini, è Miraggi di silicio di Massimo Pietroselli, anche se dietro la sua programmazione è presente un potere governativo forte.
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Infine si può sempre provare a umanizzare la I.A., che è l’approccio narrativo più comune. Facendo in modo che la I.A. impari secondo le leggi del cervello umano, la presenza delle emozioni diventa più accettabile e fa in modo che gli errori, alla lunga, possano essere plausibili. Questi errori sarebbero dovuti allo sviluppare abilità umane da parte della I.A., o a condividerne le incertezze, e quindi porterebbero nel tempo a dubbi e altre bassezze non proprio da super-computer. Un esempio importante è il replicante di Blade Runner, in particolare quello del film. Egli vuole a tutti i costi avere più tempo da vivere, rispetto alla sua programmazione limitata di quattro anni, e questo lo porterà a diventare profondamente umano.
Tutte e tre queste soluzioni narrative sono presenti in diversi racconti dell’antologia Io, Robot di Isaac Asimov. Grazie all’idea del cervello positronico governato dalle tre leggi della robotica, The good Doctor riesce a costruire scenari diversi, a seconda della legge che viene violata nello specifico contesto, e a far assumere alle I.A. comportamenti sempre più complessi. Ma, si sa, Asimov è Asimov, e solo lui poteva riuscirci con tanta semplicità. Che fosse una I.A. anche lui?

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