blog di Alberto Grandi
Cose da scrittori

Eccesso e ridondanza nella scrittura3 min read

23 Marzo 2018 3 min read

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Eccesso e ridondanza nella scrittura3 min read

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Quando scrivi, crei un mondo.
Anche quando l’ambientazione è quanto di più simile l’autore abbia voluto riprodurre al mondo contemporaneo che abitiamo, si tratterà sempre di una sua interpretazione. L’autore vive nella realtà, ma la esperisce attraverso se stesso e la sua esperienza.
Quando poi si tratta di scrivere, all’interpretazione – perlopiù inconscia e automatica – e all’elaborazione più particolare dell’ambiente, segue la selezione.
Cosa dire e quanto dire?
È certo che la costruzione attenta dell’ambientazione svolga un ruolo determinante per la riuscita dell’opera.
E tuttavia, a calcare sulla descrizione di un ambiente già noto ai lettori può dare un effetto di ridondanza e dunque fastidio; se il bar in cui due personaggi si incontrano non ha alcuna rilevanza per lo sviluppo della storia, ha davvero senso raccontamelo fino nei minimi particolari?

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Magari ci siamo formati in testa questa scena con eccesso di pignoleria. Il numero dei tavolini, le tovaglie un po’ stropicciate, briciole di brioche sul tavolino a cui siedono i personaggi. Il barista con la camicia troppo larga e grigiognola, macchie incrostate sulla logora macchina del caffè.
E la scena ci piace, ci piace come l’abbiamo costruita, ne siamo soddisfatti.
Il punto però è: al lettore frega qualcosa?
Probabilmente no, a meno che le informazioni non abbiano una qualche utilità – una qualsiasi – rispetto alla trama o almeno alla comprensione del personaggio.
Lo stesso vale quando abbiamo in testa un personaggio; nella narrazione i personaggi sono quanto mi interessa di più, a prescindere che io stia leggendo o scrivendo. Caratterizzazione profonda, sviluppo, viaggi a fondo nelle motivazioni, dialoghi, interazione… sono un po’ pignola quando si tratta di personaggi, e quando tocca a me costruirne uno è difficile scegliere cosa lasciare fuori.
Prendiamo Michele, protagonista di un racconto che sto scrivendo, – e a che a ben vedere, sarebbe il caso finissi. Michele ha diciassette anni, frequenta un ITIS scelto per sbaglio in cui non se la passa granché bene. Gli piacciono gli eroi Marvel, ma ultimamente si interessa soprattutto di fanzine indipendenti. Ascolta musica elettronica di nicchia, ma quando era più piccolo ha studiato piano per un paio d’anni. Ha i capelli biondissimi e corti, è alto e un po’ troppo magro, di modo che i vestiti, per arrivare a coprirgli le braccia, gli cascano di dosso. E potrei andare avanti all’infinito, di Michele so tutto, pure troppo. Altrimenti come farei a sapere come reagirebbe a una data situazione? Niente mi è inviso quanto le reazioni insensate.
Il racconto che sto scrivendo, tuttavia, non ha così tanto spazio da dedicare a Michele e al suo passato. Per far capire che tipo di persona sia mi servo di qualche significante sparso qua e là, un breve cenno ai rapporti coi compagni di classe, mezza frase sulla sua famiglia, la scoperta fortuita delle sue ambizioni. Non posso raccontare per filo e per segno chi sia Michele, dunque devo affidare la sua comprensione come essere umano a poche informazioni accuratamente scelte.
Certo, c’è da tenere conto che il caso specifico si riferisce al protagonista di un racconto e non di un romanzo; in quel caso, va da sé, la mole di informazioni da fornire aumenta esponenzialmente.
Ma una selezione va comunque operata; è necessaria.
Il senso della misura si impara attraverso una lettura attenta, riconoscendo le informazioni utili e quelle inutili, ciò che è interessante e quanto finisce soltanto per appesantire il testo.
Non è facile, non per tutti.
Anche perché selezionare qualcosa, significa fare fuori qualcos’altro. E tutti odiamo distruggere ciò che abbiamo costruito.

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