High-concept: cos’è?3 min read
Reading Time: 3 minutesUn paio d’anni fa mi ritrovai a partecipare a un interessante concorso letterario bandito da Acheron Books, chiamato MacchinaZero. Il contest era aperto a racconti di genere fantascientifico e aveva un tema ben preciso: gli autori dovevano ambientare le loro storie in un’Italia contemporanea diversa da quella di oggi, tecnologicamente all’avanguardia, con un’industria fiorente e fuori dalla crisi economica. Dovevano poi farcirla con un po’ di retrofuturismo qua e là, come a voler riprendere un po’ il sogno degli anni ’60 di un progresso che nella realtà dei fatti non si è mai concretizzato.
La vera particolarità del concorso però riguardava il fatto che, secondo il bando, la giuria avrebbe preferito i racconti dotati di high-concept, un’espressione di cui non conoscevo il significato e che mi ha spinto a fare delle ricerche e che ora condivido con voi.
In generale per high-concept si intende un tipo di lavoro narrativo che può essere facilmente riassunto in una frase sintetica, ed è in contrasto con il termine low-concept, maggiormente impegnato nello sviluppo dei personaggi o altri dettagli non facilmente sintetizzabili. Nel cinema si indicano con questo nome sostanzialmente i blockbuster di produzione americana, che hanno una struttura frammentabile e quindi facilmente scorporabile, al fine di essere riproposti in contesti diversi, ludici e di intrattenimento. Di qui la diffusione di gadget, poster e altro materiale che ha la capacità di alimentare il fandom rendendo il film un vero e proprio prodotto di un mercato più ampio.
Le storie high-concept quindi si originano tipicamente da un “what if?” globale che fa da catalizzatore degli eventi successivi. Non a caso uno degli high-concept per definizione è Jurassic Park, costruito totalmente sulla domanda “cosa accadrebbe se i dinosauri tornassero sulla Terra?”
Per creare un high-concept bisogna avere l’abilità di formulare un’idea nella sua forma più concisa e meravigliosa. Meno parole conterrà la descrizione, più “high” sarà l’idea: “che succederebbe se sulla Terra arrivassero gli alieni?”, “che fareste se i morti tornassero dalla tomba?”, “cosa accadrebbe se mi risvegliassi nel corpo di uno scarafaggio gigante?”, o meglio ancora “come sarebbe fare un viaggio nell’aldilà?”. Funziona, che ne dite?
Ora, è chiaro che il principio dell’high-concept è massimizzare i profitti. Romero, con la sua saga sugli zombie, non ha fatto che questo: spaventare milioni di persone con un po’ di cerone, qualche schizzo di sangue, un paio di ombre ben assestate e soprattutto un’idea sfolgorante. Ha speso pochissimi soldi e ne ha guadagnati tantissimi, diventando anche uno dei più importanti registi di sempre. Non è un merito anche questo?
L’high-concept può funzionare anche per la letteratura? Di certo buttare giù un’idea intrigante che può essere riassunta in poche parole e facilmente compresa da tutti farà storcere il naso a molti autori. Tuttavia non è semplice colpire così pesantemente nel segno. Inoltre raggiungere un obiettivo di questo tipo, soprattutto nelle opere di genere fantastico, può essere il segreto del successo. Anche perché nell’ottica dell’esportazione della storia in contesti diversi, la prospettiva di una produzione cinematografica o televisiva di un romanzo diventerebbe qualcosa di quantomeno auspicabile.
Al di là quindi del saper scrivere bene, dell’avere grandi trame nella testa, saperle rendere su carta e magari avere anche una grande capacità di realizzare delle ottime psicologie dei personaggi, essere capaci di ridurre un’idea a qualcosa di potente ed esprimibile in poche parole può forzare l’autore a prendere le misure della propria storia e a renderlo più consapevole di quello che vuole realizzare. In altre parole, un esercizio di questo tipo può far arrivare in poco tempo all’essenza della propria storia e a sviscerarla al meglio.
Per i dettagli c’è sempre tempo.