Grave o acuto. Come e quando usare l’accento4 min read
Reading Time: 4 minutesRaymond Carver, la cui scrittura è stata un modello per molti autori, ha detto che è importante scegliere “un linguaggio chiaro e preciso, un linguaggio usato in modo da infondere vita a dettagli che illuminino il racconto al lettore. Perché i dettagli siano concreti e carichi di significato è essenziale che il linguaggio sia dato in maniera accurata e precisa. Le parole possono essere precise anche al punto da apparire piatte, l’importante è che siano cariche di significato; se usate bene possono toccare tutte le note”.
Chiarezza e precisione sono quindi fondamentali nella redazione di qualsiasi testo: la scrittura è un lavoro di accuratezza e meticolosità, oltre che ovviamente di talento, passione e fantasia.
La scelta delle parole più adatte per dare forma ai nostri personaggi e alle trame che abbiamo in testa è fondamentale, ma alla base deve esserci una conoscenza approfondita delle norme che regolano una lingua.
Nonostante i correttori automatici presenti in molti programmi di scrittura, tra gli errori più diffusi in ogni genere di testo c’è un uso sbagliato dell’accento. Questo accade soprattutto per quelle parole corrette, e quindi accettate dai programmi, il cui significato cambia proprio a seconda dell’accento: tipico esempio è l’avverbio affermativo sì. Errori molto comuni, anche se di tipo diverso, riguardano do (senza accento sia quando è verbo sia quando è nota musicale) e su (senza accento sia come avverbio sia come preposizione). Inoltre a volte si tende a usare l’apostrofo al posto dell’accento.
Introdotto alla fine del Quattrocento, sull’esempio del greco, inizialmente l’accento veniva usato in maniera sporadica. Tra il Cinquecento e il Seicento s’iniziò a inserirlo sempre più spesso, ma senza delle regole precise: in genere si sceglieva quello grave quando era alla fine di una parola e acuto se era all’interno. Tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento vennero poi stabilite delle norme che sono rimaste fondamentalmente le stesse fino a oggi.
Innanzi tutto l’accento può essere grave (‘) o acuto (´). È sempre grave sulle vocali a, i, u, o quando sono l’ultima lettera di una parola, mentre sulla o oppure all’interno di una parola e, infine, sulla lettera e (sia finale di parola sia interna) può essere grave o acuto a seconda della pronuncia della vocale, aperta o chiusa. Poiché è difficile che la propria dizione sia perfetta e spesso è influenzata dalla zona di origine, è sempre bene controllare su un vocabolario. In generale comunque è facile ricordarsi che la e alla fine di una parola vuole l’accento acuto (é), così come in ché (congiunzione causale), nei composti di “che” (perché, poiché, affinché ecc.), di “tre” (ventitré) e “re” (viceré), e, infine, in né e sé. Lo si trova grave in tutti gli altri casi.
Quando è obbligatorio l’uso dell’accento? Nella nostra lingua va messo su tutte le parole polisillabiche tronche e su alcuni monosillabi, che vanno distinti dai rispettivi omografi, cioè parole identiche con significato diverso. Questi sono dà (verbo dare), dì (giorno) e tutti i composti (lunedì ecc.), là e lì (avverbi di luogo), sì (avverbio affermativo), tè (bevanda), è (voce del verbo essere), né e sé. Quest’ultima parola può essere scritta senza accento qualora si usi l’espressione se stesso, perché non c’è il rischio di equivoco, ma sono corrette entrambe le grafie.
L’accento va inoltre messo sulle parole polisillabiche formate da monosillabi che usati da soli non lo hanno: oltre ai composti di “tre” lo troveremo, per esempio in nontiscordardimé e autogrù.
All’interno di una parola, invece, l’accento non è mai obbligatorio, ma è bene usarlo quando si vogliono distinguere fra loro termini che hanno lo stesso suono (omofoni) oppure sono scritti allo stesso modo (omografi), accettando, in questo secondo caso, la parola meno comune: àncora e non ancòra.
È consigliato indicare l’accento nel caso di omografi relativi ad alcuni plurali di parole che terminano in “io” in cui si scegli di usare una sola “i”: adultèri, che è il plurale di adulterio e demòni, plurale di demonio sono sue esempi ma esistono molti casi. L’accento va messo sul termine parossitono, cioè con l’accento sulla penultima sillaba.
È poi utile usare l’accento nelle forme verbali dài e dànno, in dèi (nel senso di divinità), èra (come periodo di tempo), sètte (plurale di setta), subìto (verbo) e vòlta (nel senso di arco).
Poi ci sono casi in cui è bene accentare i termini poco comuni, magari usati in senso tecnico, oppure quelle parole di cui si sbaglia spesso la pronuncia (edìle e rubrìca) o i nomi propri con un’accentazione dubbia, magari diversa da quella che ci verrebbe più naturale usare.
Per quanto riguarda, infine, le parole straniere, per le quali si può vedere http://www.pennematte.it/2017/11/parole-straniere-un-testo-usarle/ bisogna fare molta attenzione e rifarsi alle regole di ciascuna lingua. In spagnolo per esempio l’accento è sempre acuto e va messo anche sulle lettere maiuscole o in maiuscoletto. In caso di dubbio, comunque, è sempre meglio consultare un esperto o un madrelingua. Oppure tenere a portata di mano un buon dizionario.