Neil Gaiman, il "mio" scrittore2 min read
Reading Time: 2 minutesSaranno quasi dieci anni che alla domanda “Qual è il tuo scrittore preferito?” mi viene da rispondere subito: “Neil Gaiman”. Ho delle ottime ragioni, anche se di norma non è che abbia bisogno di mettermi a pensare. Anche perché parliamo di un legame particolare e personalissimo, quello che intercorre tra un lettore e il “suo” scrittore. Secondo Umberto Eco il “lettore modello” è un costrutto semiotico interno a un testo, che identifica il lettore ideale cui lo stesso testo è rivolto. Ecco, io sento di essere un po’ la lettrice modello di Gaiman; che lui lo sappia o meno, Gaiman scrive esattamente per me.
Dicevo pure che si tratta di un legame personale, che non ha bisogno di essere spiegato né condiviso. È un sentire, non un pensare. D’altronde esistono fior di ragioni empiriche e oggettive per leggere e apprezzare Neil Gaiman; vogliamo forse privarcene?
Neil Gaiman non è uno scrittore particolarmente produttivo. Potrebbe sembrare un difetto, ma per me è un aspetto positivo. Il fatto che scriva quando sa di avere qualcosa da scrivere sta a indicare che ciò che scrive è davvero sentito.
Benché io sia solitamente affascinata dai personaggi e da un buona caratterizzazione, nel caso di Neil devo ammettere che a catturarmi è prima di tutto l’atmosfera, e quella per me è data dall’ambientazione. Contesti bizzarri, disturbanti, curati nel dettaglio, vissuti dai protagonisti col giusto stupore.
Il grigio. Non in senso cromatico, ovviamente. Neil Gaiman sa che le persone non si distinguono in buoni o cattivi, ma in nebulosi miscugli di bianco e nero che fanno del proprio meglio – o magari no – per fare quello che è richiesto loro di fare. Esistono dei malvagi abbastanza netti e privi di stratificazioni – il villain de Il figlio del cimitero, ad esempio – ma esistono anche scoppiettanti coppie di malvagissimi come Mr. Vandemar e Mr. Croup, affiatatissimi in Nessun dove.
Il modo in cui esseri non umani vivono e vedono il nostro mondo è, per forza di cose, ben lontano dalla prospettiva umana con la quale siamo soliti interpretare ciò che ci sta attorno. Dovrebbe essere ovvio, ma non lo è poi tanto. Mi ci è voluto American Gods per rendermene pienamente conto.
Il lieto fine è relativo; a volte un ottimo finale è un finale crudele.
Ebbene, penso di aver dato una discreta retrospettiva di ciò che mi porta ad adorare Gaiman. Volendo, potrei tirarne fuori altrettante nel giro di dieci minuti, ma avrebbe davvero senso continuare a inanellare una motivazione dopo l’altra?
Piuttosto, potrei augurarvi di trovare sulla vostra strada di lettori un libro che vi assorba e vi completi come è successo a me con Nessun dove.
Magari potrebbe essere lo stesso Nessun dove.