La stanza profonda di Vanni Santoni4 min read
Reading Time: 4 minutesQuesto articolo non sarò io a scriverlo; ci sono voci molto più adatte a chiacchierare del suddetto libro, molto più adatte della mia. Potrei farlo scrivere, ad esempio, a Yarrah, chierico mezzodrago e capitano di una ciurma composta da orchi e minotauri, col sogno segreto di riunire tutti i dragonidi sotto un’unica bandiera di pace e armonia, coboldi compresi. Oppure potrei farlo scrivere a Melissa Cuore di Burro, halfling paladina in crisi mistica, che eccede in violenza e ha un rapporto quasi simbiotico con la sua cavalcatura, un unicorno deceduto di nome Galletta. O magari a Nina Machiavelli, vampira necrofila e arrampicatrice sociale. O ancora, a Jane Doyle, irlandese alcolista e fondatrice dell’IRA.
Non so se si intuisca o meno, ma l’elenco di nomi e caratteristiche da Yarrah a Jane si tratta di una buona parte dei personaggi che ho interpretato nel corso degli ultimi anni. Non solo in Dungeons & Dragons, Nina viene da The Masquerade, Jane da Lo spirito del secolo. Al momento con alcuni amici sto pure giocando un medico cinese nel Far West, in Savage World, citato pure nel libro di cui vorrei parlare ma di cui ancora non ho nemmeno scritto mezzo titolo.
La stanza profonda di Vanni Santoni, edito da Laterza nella collana Solaris.
Devo trovare la voce e non mi so decidere.
Sceglierò nel migliore dei modi, in quello più adatto e democratico: un tiro di dado.
Quattro personaggi, un d4. Facciamo quello del set arancione, il mio set preferito, non soltanto perché è il primo, ma pure perché me l’hanno regalato per Natale gli amici con cui ho iniziato a giocare sul serio.
Ho fatto 1. Meno male che non sto giocando.
Yarrah sia, dunque, anche se la sua voce non è tra quelle che conosco meglio, avevo appena imparato a conoscerla e interpretarla quando la quest si è interrotta, tra un massacro e la visita a una biblioteca magica.
Dunque, vediamo.
“C’è ‘sto tizio che parla di noi, del nostro mondo. Non si capisce perché, ma gli salta in testa, a lui e ai suoi amici, di venirlo a visitare, manco fosse uno scherzo. Fa il capitano nella sua ciurma, almeno questo ce l’abbiamo in comune. Per il resto, non lo capisco. Parte da pischello, che suo padre gli porta una scatola di gioco base e raggruppa intorno a un tavolo altri pischelli, si mettono a giocare e a ruolare, come dicono loro, partono di dadi e di dungeon.
“Ci fosse un po’ di birra, c’ho la bocca riarsa, sputo acido, mica sciroppo.
“E c’è ‘sto tizio, il protagonista, si dice così?, che fa giocare i suoi compari. E racconta di come li raggruppa insieme, di come li guida in mezzo alle avventure, epperò intanto ti parla anche del mondo fuori da quella bella stanza segreta che si ritrova sotto casa – che poi è pure scimunito, poteva lasciarci un sacco di refurtiva, o almeno affittarla a gente più scaltra per… ma lasciamo stare, chi ha il pane non ha i denti, sempre detto che gli umani non brillano per intelligenza – e tutti quei decenni che hanno tenuto separati lui e la banda.
“E alla fine non ho mica capito bene cosa conti di più per lui, il gioco o i compari? O tutti e due, che l’uno senza l’altro non conta niente? O l’uno è un mezzo per raggiungere l’altra cosa, che cavolo, non sono io il Mago, lasciatemi stare.”
L’avevo già detto, la voce di Yarrah non mi è poi così familiare, e pur non essendo un orco barbaro con intelligenza 6, rimane una becera piratessa. Nina, con la sua laurea in medicina, avrebbe fatto molto meglio. Pure Melissa Cuore di Burro, dopotutto, se la sarebbe cavata. Non sarà un genio, ma quando vuole si impegna.
Quel che non ha detto Yarrah, lo dirò io.
Vanni Santoni narra in seconda persona, tecnica non facilissima sperimentata in primis dal caro Italo Calvino nel capolavoro Se una notte d’inverno un viaggiatore. Il punto di partenza è il ritorno del protagonista nella casa dei genitori, quella in paese, che gli hanno intestato raccomandandogli di farne buon uso. Lui torna a visitare la stanza in cui giocava con gli amici, campagne su campagne, decenni di giocate tra insalatiere colme di dadi e scatole di matite spuntate. Schede, mappe, storie. Chiama un vecchio amico e giocatore per vedere se vuole aiutarlo a piazzare qualche cimelio, la vista dei manuali risveglia qualcosa, partono i ricordi di com’è iniziata, di com’è andata, di com’è finita. E nel frattempo si ripercorre soprattutto la storia dei giochi di ruolo in Italia, negli anni ’90 in cui andavano forte le Magic, della minaccia satanista, dell’evoluzione dei sistemi di gioco. C’è la storia del protagonista senza nome e c’è la storia – principalmente – di Dungeons & Dragons. Soprattutto c’è un tentativo, secondo me riuscito, di spiegare come e perché si giochi.
“D&D è controcultura. […] Lo è perché in una società che premia solo la competitività mostra che ci si può divertire, anzi, avere un’esperienza esaltante, attraverso la cooperazione, senza pagare nessuno e senza sottoporsi a nessuna autorità se non quella delle regole scelte assieme”.
Il gioco di ruolo è un sacco di roba, e Vanni Santoni cerca di spiegarlo. Secondo me ci riesce, anche se non so davvero cosa possa capirne un lettore totalmente a digiuno di tutta la subcultura. Ma poi il punto è pure quello: se non ci giochi, non capisci mai del tutto.