Mio padre adora Fabio Volo e io non mi sento di rinnegarlo4 min read
Reading Time: 3 minutesSiamo soltanto a inizio dicembre, ma l’incombenza dei regali di Natale per la famiglia si è già fatta pressante. A mia madre avrei voluto regalare l’ultimo libro di Fabio Bartolomei, ma ella si è ormai abituata a leggere su supporto digitale, quindi nisba; avevo un’idea ben precisa di cosa regalare a mia sorella, adoratrice di Pusheen, ma ieri mi ha chiesto tutt’altro, maglie indie da ordinare con largo anticipo su oscuri siti indie; con mio padre sarà facilissimo. Egli, saggiamente, mi ha fatto pervenire settimane fa una richiesta, facendola signorilmente passare da madre, in modo da non chiedermi il regalo direttamente.
L’ultimo libro di Fabio Volo. Che adesso neanche ricordo come si chiami, e non ho nemmeno tanta voglia di andarmelo a cercare per l’internet. Basti sapere che il libro è quello, che mi basterà entrare in una qualsiasi libreria – io da figlia infima qual sono ho già un mezza idea di scandagliare gli scaffali dei libri usati – e potrò uscire col pacchetto pronto e 1/3 dei regali risolto.
C’è un legame piuttosto evidente, direi, tra il titolo dell’articolo e le volontà natalizie di mio padre. A mio padre piace Fabio Volo. Anzi, lo adora. E non è l’unico, nella mia famiglia. Piace a mia madre e a mia sorella; lo legge mia zia, lo pilucca mia cugina. Pare che io sia l’unica immune al fenomeno, ma non è che io ci trovi alcunché di cui vantarmi, che pure io ogni tanto sento il bisogno di darmi a letture leggere e disimpegnate. Che poi non si tratti di Volo è solo un caso.
Temo si tenda, quantomeno negli ultimi anni, a tracciare una linea di separazione fin troppo netta tra le letture impegnate e quelle disimpegnate; tra i lettori “della domenica” e i lettori forti. Tra quelli che in biblioteca puntano su Danielle Steel e quelli che si barcamenano tra Joyce e Hesse. Non è una tendenza che riscontro limitatamente al mondo dei libri e delle lettere. La volontà di separare ciò che è semplice, popolare e godibile senza sforzo alcuno la vedo pure nella musica, nel cinema, nella televisione. Chi ascolta Arvo Part si discosta dal fan di Madonna, chi ride con Neri Parenti è malvisto dagli adoratori di David Lynch, chi guarda Ulisse disprezza X-Factor. La linea di demarcazione tra le due culture – quella alta e quella bassa, l’accademia e il popolo – sembra separare il pubblico molto più di quanto non separi effettivamente i prodotti culturali; Dante lo recitavano i contadini, Alexandre Dumas ha pubblicato I tre moschettieri a puntate sulle riviste dell’epoca, e non è che ai tempi i cosiddetti “romanzi d’appendice” fossero visti con plauso dalla critica. La cultura alta può diventare bassa, la cultura bassa può diventare alta. È il pubblico, tuttavia, a farsi un’idea di sé immobile e definitiva.
E secondo il mio modesto parere, a torto. Mio padre adora Fabio Volo, dicevo. Gradisce anche Sophie Kinsella, Katherine Pancol e un sacco di autori di romanzi leggeri che adesso non mi sovvengono. In compenso, i suoi scrittori preferiti sono Ernest Hemingway e Jack London. Ed è stata mia madre, ancora fan di Volo e attualmente impegnata nella lettura di tutta la serie di Game of Thrones, a convincermi a leggere un bel po’ di anni fa Cime Tempestose di Emily Bronte. Vedrò di soprassedere sui legami letterario-emotivi di mia sorella, sempre lettrice di Volo, con Salinger e Hesse.
Qual è il punto di cotante elucubrazioni? Il punto è che l’individuo è ondivago e cangiante, come fruitore di contenuti. Nessuno avrà mai voglia solo e soltanto di letture, ascolti e visioni impegnate. Il lettore di romanzi leggeri difficilmente leggerà soltanto romanzi leggeri, e l’adoratore di Kubrick avrà voglia una volta ogni tanto di farsi due risate con American Pie.
A volte abbiamo bisogno di staccare, di rilassarci, di lasciarci scivolare in una fruizione disimpegnata, di percorrere un sentiero sicuro che sappiamo già in partenza dove finirà per condurci. Uno schema semplice, l’assenza di alte velleità. Una scrittura che ti si siede accanto, mettendosi al tuo stesso livello se non più in basso. Chi più e chi meno, ne abbiamo bisogno tutti ogni tanto.
E personalmente non riesco a trovare ragione di imbarazzo o vergogna per un così naturale istinto al rilassamento.
(certo, poi su spotify tengo ben nascosta la playlist in cui tengo un’esecranda selezione di musica orrido-pop anni ’90, ma questa è un’altra storia che si chiama “ipocrisia”)