blog di Alberto Grandi
Cose da scrittori

Caro personaggio, senza la tua idiozia la trama non andrebbe avanti4 min read

5 Dicembre 2017 3 min read

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Caro personaggio, senza la tua idiozia la trama non andrebbe avanti4 min read

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Ultimamente ho scritto un articolo su John Polidori e il suo Vampiro, spiegando per quali ragioni trovo che sia invecchiato davvero male. La trama troppo semplice, la caratterizzazione dei personaggi, i dialoghi che sembrano un rigurgito di cliché. Importante quanto vogliamo, ci mancherebbe, ma non è proprio la lettura del mese, ecco.
Che c’entra di nuovo Il vampiro? Che voglio ancora dal dottor Polidori, dopo averlo preso a mazzate neanche due settimane fa?
Ecco, il punto è il protagonista, Aubrey. Aubrey che scopre nel malvagio Lord Ruthven un cattivone e gli promette tuttavia di non dire nulla. Aubrey che, pur di mantenere la promessa fatta a un mostro, lascia che questo si infiltri nella sua famiglia e porti a compimento i suoi spietati propositi. Tutto per due paroline. È questo il punto. Uno degli aspetti che mi sono più insopportabili nella narrativa; il momento in cui una trama potrebbe essere interrotta, il problema risoltissimo, non fosse che c’è un personaggio che si comporta in maniera così ostinatamente stupida da accantonare ogni parvenza di credibilità, permettendo al meccanismo della storia di procedere, sia pure stridendo e a scossoni.
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Non che Polidori sia l’unico a essersi macchiato di un siffatto crimine narrativo, tutt’altro. E volete sapere chi è quello scrittore orrendamente colpevole, che ha preferito la comodità di una soluzione semplice quanto l’idiozia di un personaggio alla gloriosa fatica della costruzione di una trama solida? Volete sapere il nome di quell’essere che ha fatto della scrittura una beffa e dei suoi personaggi dei burattini?
Io. O meglio, Io qualche anno fa.
C’era una volta una storia; una storia che mi è venuta in mente mentre passeggiavo per strada a Milano. Era una notte d’inverno del secondo anno di università, e a giudicare dal punto della città in cui mi trovavo, è probabile mi stessi recando a fare un giro alla Feltrinelli di Corso Buenos Aires. Ed ecco che, con Do you dream of me dei Tiamat nelle orecchie, quella storia mi esplode nel cervello. O almeno, una scena. Parte sempre tutto da una scena, il resto è l’impegnativa costruzione di un’impalcatura abbastanza resistente.
E che succede con quella scena? Succede che un personaggio rimane e l’altro va via; succede che a rimpiazzarlo ne arriva un altro, che diventa protagonista. Succede pure che il rapporto tra i due personaggi presenti rimanga statico, in una bolla di reciproco astio che non so bene come spiegare. Sono due sorelle, e ai tempi avevo pure dato loro improbabilissimi nomi stranieri.
Sono due sorelle diverse tra loro, che si amano e si odiano con una costanza che fa male. Ma vai pure a sapere perché. Ai tempi, con la mia scarsa conoscenza della psicologia umana, ho pensato che la ragione più ovvia e credibile fosse il comportamento dei genitori. Tutte quelle questioni irrisolte di gelosia, disparità di trattamento, invidie e quant’altro.
È successo che sono arrivata quasi alla fine di quella storia. Centinaia e centinaia di pagine, finché non ne ho revisionato l’inizio per stamparlo e farlo leggere a un’amica.
Quella prende la massa di fogli malamente tenuti insieme e li legge in silenzio; eravamo sedute su una panchina vicino alla fermata dell’autobus, il cielo era grigio d’autunno e io trepidavo in attesa di un suo parere.
Leggy,” ha detto, interrompendo la lettura che non era neanche a metà, “questa cosa non ha senso.”
E che dire? Aveva ragione. Perché se un rapporto disturbato tra le due sorelle protagoniste poteva avere senso nell’ottica di un trattamento impari da parte dei genitori, non riuscivo a dare alcuna spiegazione al suddetto trattamento. I genitori che avevo in mente erano persone normali, equilibrate, amorevoli. Perché avrebbero dovuto devastare la psicologia delle loro pargole provocando tra loro un reciproco odio?
E quindi niente. Quella storia l’ho accantonata anni fa, e ci ripenso ogni tanto. Piuttosto spesso, a dire il vero.
D’altronde non potevo fare altrimenti. Non volevo che la mia protagonista facesse come l’Aubrey di Polidori, che accettasse di muoversi senza senso per la storia, soltanto perché non ero in grado di portare avanti la trama senza forzature di sorta.
Che dire, dunque?
A volte le storie non funzionano senza l’idiozia di un personaggio; ma se è quest’idiozia a permettere alla trama di andare avanti, allora forse è il caso di rivederla daccapo.
A meno che il personaggio non sia volutamente un idiota.
In quel caso, beh, tutta coerenza.

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