Il vampiro di John Polidori – Quando i classici non reggono la prova del tempo3 min read
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È ormai risaputo che la figura del vampiro come la intendiamo oggi debba molto di più a Il vampiro di John Polidori che al Dracula di Bram Stoker, benché la fama abbia favorito il secondo mille volte di più rispetto al primo.
John Polidori era il bisbetico segretario e medico personale di George Byron, gonfio di invidia per i risultati letterari del suo datore di lavoro e pure mezzo attaccabrighe. La sua creatura letteraria, che raggiunse un certo successo all’epoca – e per la quale non riuscì nemmeno a riscuotere tutti i diritti – venne alla luce grazie al famoso soggiorno a Villa Diodati, a Ginevra, nel 1816. Nella stessa occasione, Mary Shelley – all’epoca ancora Mary Wollstonecraft – iniziò a pensare al suo Frankenstein.

Ed ecco, c’è una differenza sostanziale tra Frankenstein e Il vampiro, che è poi il tema centrale di questo articolo. Certo, la trama, i personaggi, le questioni filosofiche di fondo, la profondità, il ruolo della scienza… sono produzioni narrative del tutto differenti l’una dall’altra, e direi che l’unica analogia possibile stia nella coincidenza della loro genesi. E tuttavia, la differenza che vorrei sottolineare è quanto segue: la lettura di Frankenstein dà oggi un sapore antiquato per stile e costruzione, ma trattasi comunque di una lettura piacevole e dai risvolti interessanti; a leggere oggi Il vampiro, pare quasi di sfogliare una mezza parodia.
Non che non meriti una lettura: alla creatura di Polidori, come dicevo all’inizio, dobbiamo moltissimo. È stato Polidori a dare una forma definitiva al nucleo di credenze e mitologie già presenti da millenni nella tradizione europea, e questo non glielo toglie nessuno. Eppure quando anni fa mi sono data alla lettura del Vampiro, è stata davvero dura evitare di saltare le pagine, e scorrere i dialoghi con occhio privo di ironia. I personaggi, poi, paiono macchiette; l’eroe, il buono buonissimo gentiluomo Aubrey, il cattivo cattivissimo Lord Ruthven e la donzella in pericolosissimo Miss Aubrey, sorella del protagonista.
La trama è estremamente semplice: Lord Ruthven, il malvagio Vampiro, si è insediato con successo nell’alta società londinese, è riuscito a instaurare una bella amicizia con l’ingenuo Aubrey e a quanto pare il suo obiettivo sta nel fare a pezzi la rosea visione del mondo del candido fanciullo attraverso una serie di perdite e malefatte. Il che non costituirebbe neanche una trama malvagia, diciamocelo, se trattato con la dovuta cura il tema della corruzione mantiene il suo fascino nel tempo.
L’imbarazzo coglie il lettore nel seguire le rozze azioni di Ruthven e le insensate reazioni di Aubrey. C’è una cosa che personalmente non riesco proprio a sopportare in nessuna qualsivoglia opera di fantasia: quando una situazione degenera fino all’inevitabile, laddove sarebbe bastata una mezza parola per risolvere tutto. Ecco, questo è il caso più emblematico che possa sorgermi in mente. Una tragedia provocata, a quanto pare, da nulla più che un autore che voleva scrivere una tragedia. Un susseguirsi di forzature improbabili e leggerezza immotivata da parte del protagonista.
Grazie, Polidori, per la tua influenza nella narrativa horror, per il peso che la sua idea di vampiro ha avuto nella produzione letteraria che ha seguito la pubblicazione del tuo capolavoro.
Non cercherò mai di convincere chicchessia a soprassedere sulla lettura del Vampiro; si tratta di una pietra miliare, di un caposaldo, dell’impalcatura su cui si reggono Stoker e Le Fanu. Andrebbe letto anche solo per conoscere meglio ciò che si ama in altri libri.
Ma trovo sia difficile leggerlo se non con una rassegnata consapevolezza di quanto sia manchevole da un punto di vista narrativo.