Del gatto carezzato dal cattivo e altri cliché narrativi3 min read
Reading Time: 3 minutesSe cerco il termine cliché su Google, la prima definizione che trovo è quella di “matrice zincografica per illustrazioni da inserire nelle forme tipografiche di stampa“. La seconda è quella più vicina all’uso corrente, derivata a forza di analogie dalla prima: “Schema di un ragionamento o di un discorso (e anche di un comportamento) che si ripete abitualmente; espressione banale e priva di originalità.”
“Cliché” è lo sbuffo veloce con cui accantoni qualcosa di già visto, di costantemente ripetuto, di stantio. Lo stereotipo fatto media, un entusiasmo mutatosi in noia. In narrativa, può essere una situazione standardizzata – il principe salva la principessa – o un personaggio che funziona come mille altri hanno funzionato – l’eroe che si presta malvolentieri alla missione ma scopre se stesso lungo il tragitto – o un’espressione, un modo di fare.
Il cattivone che accarezza il gatto appollaiato sulle sue gambe, che racconta i propri piani malvagi con tanto di soluzione all’eroe di turno legato, o che si fida dell’affascinante spia doppiogiochista che alla fine farà franare tutto.
I cliché sono tanti e di solito comunicano una giusta sensazione di tristezza, squallore e irritazione. Tristezza per l’inefficacia, irritazione perché spesso sono utilizzati come scelte di comodo, scorciatoie per arrivare a un punto che prosciugano di tutta la sua forza.
I cliché sono malvisti dagli scrittori, soprattutto da quelli che temono di essere tacciati con l’empia nomea di imitatori. Ma ci sono pure altri cliché. Quelli usati con sapienza e consapevolezza, che quando compaiono sulla pagina stabiliscono un contatto ancora più stretto tra autore e lettore, un tacito “Io so quello che hai fatto qui” che riscalda la lettura.
Cliché è il tizio che cammina verso la telecamera a rallentatore, dando le spalle con assoluta noncuranza a un’enorme esplosione, magari inforcando gli occhiali da sole, o masticando una gomma, tanto per far capire che per lui non c’è alcuna differenza tra quella gomma e lo spreco di tritolo a pochi metri.
Cliché è la ragazza cazzuta dal passato traumatico vestita di nero, incapace di fidarsi di chicchessia, che a forza di calci e cinismo salverà mondo e protagonista.
Cliché possono essere un sacco di cose, e possono essere sia pattume che gradevoli, a seconda dell’abilità con cui sono usate, della competenza del lettore e dei propri gusti.
Uno degli aspetti del cliché che mi interessa sottolineare, tuttavia, è che non si tratta di meri strumenti statici della narrazione. O meglio, non soltanto. Certo, non ci vuole nulla a pescare uno stereotipo qualsiasi da un genere letterario e piazzarlo pari pari nel proprio racconto. Detto fatto. Ma i cliché non sono fatti soltanto per quello. Sono una materia viva, organica, mobile. E soprattutto, modificabile.
Prendiamo lo stesso eroe che si allontana da un’esplosione con noncuranza, la situazione che descrivevo poc’anzi. Prendiamo quella situazione e impastiamola con altri ingredienti. L’esplosione potrebbe far saltare via il personaggio, e tante grazie al suo aplomb; il personaggio potrebbe non essere da solo e, buttandosi a terra, potrebbe fare apertamente riferimento al cliché già esposto; l’esplosione potrebbe rivelarsi un piccolo sbuffo di fumo, disattendendo le attese di fuoco e fiamme, oppure potrebbe scatenare un incendio circolare che… ecco, questo è il punto. Il punto è che il cliché sarà pure uno stereotipo, ma se viene reinterpretato a dovere può diventare una materia più che apprezzabile.
“Tu e io sappiamo qualcosa, lettore, ma facciamo così, giochiamo con quello che sappiamo e vediamo che ne viene fuori”.
Più o meno.
Facciamoli servire a qualcosa ‘sti stereotipi, no?