Le bambole di Emily Leroy: bellezza e immobilità perturbanti3 min read
Reading Time: 3 minutesÈ interessante quando i generi si mischiano, ed è ancora più interessante quando a intrecciarsi sono generi apparentemente molto lontani tra loro. Così come quasi ognuno di noi diversifica le sue letture, anche chi scrive può lasciarsi prendere dalla voglia di mescolare, e spesso è da queste sperimentazioni che nascono opere importanti.
Questi sono i pensieri che mi ha fatto emergere la lettura di Bambole di Emily Leroy (uno pseudonimo?), autrice presente sul nostro Social di autori e lettori. Questo è un racconto inserito nel genere fantasy, e in effetti di soprannaturale in esso ce n’è molto. Tuttavia non mi sarei meravigliato se fosse stato inserito sotto l’etichetta “sentimentale“, essendo marcata anche la parte emotiva della narrazione.
Alice perde la mamma all’età di cinque anni. Una perdita tragica, mai accettata dalla piccola, neanche con il passare del tempo. Il segno lasciato da questa assenza si materializza in una bambola vittoriana con cui Alice chiacchiera ogni sera, Ariel. Da adolescente Alice non riesce a socializzare con nessuno, non ha amiche, non ha un fidanzato, ma suscita solo invidia nello sguardo degli altri a causa della sua bellezza. Ha una sola confidente, la sua bambola preferita, almeno finché non entra in scena Matt, un ventenne dall’aria scanzonata che riesce a incuriosirla e a tirarla fuori dal suo guscio, proprio come se fosse lei una bambola, bellissima e incapace di aprirsi al mondo esterno.
Il racconto è scritto davvero bene, ha un buon ritmo e mantiene sempre alta l’attenzione del lettore. Devo ammettere però che per i miei gusti personali, soprattutto nella parte centrale, la storia prende troppo una piega sentimentale. La narrazione si sofferma sul rapporto tra i due giovani che si cercano senza mai concedersi l’una all’altro, dando al tutto una forte tonalità Young Adult. Devo ammettere comunque che il finale, per quanto tragico e triste, ha il merito di ristabilire un po’ le tonalità scure che aveva nel principio.
L’immaginario legato all’idea di bambola è molto singolare e riflette molteplici sfaccettature. Da un lato quella della bellezza intrappolata in un simulacro, come quella delle Barbie, per intenderci: un corpo perfetto, ma allo stesso tempo immobile e imperituro. Anche Sigmund Freud ne parla, nel suo saggio intitolato Il perturbante, la cui lettura consiglio vivamente a tutti gli scrittori che voglio un po’ di “teoria” su questi argomenti. Nel caso specifico il padre della psicologia prende in rassegna il racconto Il mago sabbiolino (Der Sandmann) di E.T.A. Hoffmann, la storia di un giovane, Nathaniel, innamorato di Olimpia, la sua vicina di casa. Il ragazzo scoprirà che la bellissima Olimpia è in realtà un automa, una vera e propria bambola dalle dimensioni umane e ciò lo porterà al delirio e infine al suicidio. Per Freud sarà il fatto di trovare unheimlich, perturbante appunto, l’essersi innamorato di qualcosa che in realtà dovrebbe restare immobile, a far impazzire Nathaniel.
Alcune volte però è proprio questa immobilità esteriore a essere garanzia di discrezione: le bambole non parlano, non possono farlo, ed è per questo motivo che con loro ci si confida, è per questo motivo che vengono elette a custodi di profondi segreti. Questo sembra essere proprio il caso di Alice e della sua bambola parlante, quasi certamente una sorta di reincarnazione della giovane madre morta, ma quest’ultima è solo una supposizione mai esplicitata dall’autrice.