Game of Thrones, c’era una volta uno scrittore di nome Martin…3 min read
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Ieri ho guardato la prima puntata della settima stagione di Game of Thrones, con un giorno di ritardo rispetto a buona parte degli affezionati, e soprattutto rispetto a mia madre, che da quando la serie tv ha superato il punto in cui sono arrivati i libri, continua a minacciarmi periodicamente di farmi un sacco di spoiler. Cara madre. Una perfetta Tyrell – e dire che io sono una convinta Greyjoy.
Ma poi che senso ha scrivere più di due righe sull’intera questione? Game of Thrones, nuova serie, quanto ne sarà stato detto, scritto o letto nelle ultime 48 ore? E che posso dire io di nuovo, che non sia già stato ripetuto? Sono frasi che nascono già vecchie, che solo a pensarle si sente odore di naftalina.
Eppure. Eppure due parole mi va di scriverle, perché per me Game of Thrones è stato qualcosa di grande che adesso si è ridotto a una cosa piccola. E me ne dispiace. Me ne dispiace tantissimo.
Ho incontrato la serie di Martin che ancora frequentavo le superiori. Ero al quarto anno, mio cugino ha iniziato a parlarmene e due giorni dopo già lo stavo leggendo. Manco un mese e avevo già letto tutto quanto era uscito; un libro ogni due giorni, al massimo. Nelle edizioni truffaldine della Mondadori, è vero, che le tagliava in due-tre parti, ma erano comunque volumi discretamente corposi.
Ho vissuto per quasi dieci anni – a scriverlo fa stranissimo – A Song of Ice and Fire come un’esperienza vera e propria, con ansia e aspettative di livelli quasi Potteriani. Che a quei tempi non eravamo ancora abituati a fantasy di questo tipo, c’erano il Bene e il Male e il resto era eccezione. Sto parlando del mainstream, del facilmente raggiungibile, lo so, ma c’è stato un periodo neanche troppi anni fa in cui in libreria lo spazio dedicato al fantasy era ancora più esiguo di adesso, e la scelta era tra il miserando e il mediocre.
Martin ci ha abituati a un mondo fantasy in cui i personaggi sono davvero zone grigie, esseri imperfetti che perseverano o si arrendono, persone sulle quali si abbattono orrori inenarrabili e ne vengono segnati.
Martin ha preso Philip Roth e l’ha mescolato a Tolkien.
E so che a rivedere oggi la faccenda appare diverso, che in America erano già famosi altri autori di alto livello, che certe scelte sono forzate e la magia è diventata troppo potente rispetto alle mani degli uomini.
Però A Song of Ice and Fire qualcosa l’ha fatto. Tanto, anzi. Il modo in cui intendiamo oggi il fantasy dipende troppo da Martin per poter far finta di nulla.
E dunque?
E dunque a me la faccenda della serie tv che va avanti dimentica del libro, con tagli inenarrabili e scelte discutibili, ha mozzato il piacere della saga. Ripensandoci, non saprei dire in che modo avrebbero potuto gestire le problematiche di una scrittura lenta e di una produzione televisiva che non può fermarsi per troppo tempo. Non ho soluzioni da dare, né sono in grado di trovare spiegazioni o dare un senso conclusivo a questo mio articolo.
Solo che anni fa ho cucito con indicibile entusiasmo il cosplay di Tyrion, mentre ieri, guarando la 7×01, ho avuto una reazione appena tiepida perfino nelle parti che avrebbero dovuto farmi saltare dalla sedia.
Ho perso qualcosa per strada, e non so bene cosa.
E non so se dipenda dall’attesa o dalla delusione.