Ma è vero che i grandi romanzi si scrivono da soli?3 min read
Reading Time: 3 minutesMarco Missiroli, autore di Atti osceni in luogo privato, forse il romanzo di formazione italiano più interessante degli ultimi anni, dice di averlo scritto di getto diversamente dai romanzi precedenti. Louis Ferdinand Céline, nelle lettere al professor Milton Hindus sosteneva che i suoi romanzi si scrivevano da soli. Bukowski diceva che scrivere era semplice come rotolare giù da una montagna. Moravia in Vita di Moravia, paragonava la scrittura creativa a un’elica che ruotando velocemente prende la forma di un cerchio.
Velocità, spontaneità, facilità.
A sentire certi autori, i loro capolavori sono costati più piacere che sacrificio e sono risultati facili e obbligati a compiersi, come un atto fisiologico (lascio al lettore immaginare quale).
La cosa, diciamolo, fa un po’ incazzare. Almeno chi, come il sottoscritto, scrive e riscrive. Passa un’ora battendo sulla tastiera in uno stato prossimo all’estasi convinto di aver finalmente maturato il capolavoro, poi si ferma, rilegge, e si chiede come abbia fatto a produrre una tale schifezza.
Allora è vero, viene da pensare: scrivere è questione di talento a prescindere. Non c’entra l’impegno, la costanza, il mettersi al computer e ponderare bene le parole. Le parole o te le sussurra la musa all’orecchio altrimenti non le troverai mai. Quindi, che cosa ci sto a fare io, seduto davanti al computer?

Ci sono affermazioni di grandi autori che sono all’opposto di quanto appena scritto. Cominciamo con un genio del nostro tempo, non letterario, ma indubbiamente creativo, Steve Jobs: “Son convinto che circa la metà di ciò che separa gli imprenditori di successo da quelli che non l’hanno è la pura perseveranza“. Secondo Ernest Hemingway – ma la frase è stata variamente attribuita a tanti grandi – il genio è 1% ispirazione (“inspiration“) e 99% sudorazione, fatica (“perspiration“). Bellissima la frase di Baudelaire, secondo me la più azzeccata per quanto riguarda la poesia: “Il genio non è altro che l’infanzia ritrovata a volontà“.
C’è poi il retroscena di un’opera fondamentale della letteratura del Novecento che spiega tutto: Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez. Prima di iniziare a scrivere il suo capolavoro, l’autore colombiano aveva pubblicato altri libri, nessuno dei quali lo aveva soddisfatto pienamente. Lui stesso, poi, avrebbe detto che la sua scrittura soffriva di una sorta di intorpidimento dovuto a un sospetto terribile per un autore: che il cinema, alla fine, dicesse già tutto. Poi, un giorno, mentre guidava in auto, insieme alla moglie e ai due figli per andare in vacanza, Gabo ebbe una visione. O una folgorazione. O intuizione. Chiamatela come volete: tutto si dispiegò nella sua mente e lui capì come cominciare il libro della sua vita, quello che avrebbe riassunto la sua esperienza di uomo e quindi di scrittore. Fermò l’auto, fece inversione a U, costrinse moglie e figli a tornare a casa e si barricò in una stanza per scrivere ininterrottamente per mesi e mesi. La moglie per sostenere la folle intuizione, impegnò il televisore e altri oggetti.
Ora, possiamo dire, in un certo senso, che il libro bussò alla mente dell’autore, ma dopo anni e anni spesi a cercarlo, a pubblicare romanzi e racconti mai soddisfacenti, a temere di non avere una scrittura all’altezza di un altro mezzo di espressione – il cinema. La musa è giunta per Garcia Marquez dopo essere stata a lungo cercata ora con metodo ora con lo scoraggiamento di chi si dà per perso. La genesi di Cent’anni è ormai diventata aneddoto stranoto, raccontato persino in un fumetto, Gabo. Memorie di una vita magica. Vale la pena ripeterlo a se stessi ogni volta che si vede la propria passione per la scrittura frustrata dal fallimento.
Solo chi va oltre il fallimento e mostra perseveranza oltre che passione, verrà raggiunto dalla Musa.