La vegetariana di Han Kang – recensione3 min read
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La vegetariana (Adelphi, 9,99 euro in formato ebook), di Hang Kang, autrice sudcoreana, vincitrice del Booker International Prize 2016, a dispetto del titolo, non è un romanzo sul vegetarianismo, o almeno non solo. Il personaggio da cui prende spunto la vicenda, è quello di Yeong-hye, una donna che, nella prima delle tre parti che compongono il testo (La vegetariana, La macchia mongolica, Fiamme verdi) – l’unica narrata in prima persona – viene descritta dal marito come assolutamente normale e priva di fascino.
“Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante”.
Questo l’incipit. Yeong-hye comincerà ad acquisire una propria pregnanza agli occhi del marito e della sua famiglia, nel momento in cui smetterà di mangiare carne in una società, quella sudcoreana, che nella carne vede il suo alimento principale. La scelta di Yeong-hye non è etica. Sembrerebbe la conseguenza di incubi di volti e corpi insanguinati che sprofondano la donna nel terrore. Ma dalla sua famiglia, specie dal padre tirannico, il rifiuto della carne viene vissuto come un affronto, un rifiuto sistematico all’ordine e al conformismo.
Nella seconda parte, la narrazione passa alla terza persona e il personaggio di Yeong-hye viene analizzato dallo sguardo del marito di sua sorella, un artista. Anche lui un personaggio apparentemente anonimo, senza fascino, un artista fallito, finché non viene a sapere che Yeon-hye – che nel frattempo è stata lasciata dal marito ed è reduce da un ricovero psichiatrico – ha una piccola macchia mongolica sul sedere, una macchia azzurra di quelle che se ne vanno con l’adolescenza. Questo particolare ossessiona l’uomo che comincia a immaginare Yeong-hye dipinta nuda e di fiori e a covare per lei una passione erotica, sviluppando una propria scandalosa poetica che, se non altro, lo realizza come artista.
Nella terza parte, Yeong-hye smette del tutto di mangiare, non solo la carne, e viene nutrita artificialmente. Il suo rifiuto, l’atteggiamento assente, interpretato come catatonia, la sua idea folle di trasformarsi in albero e nutrirsi solo d’acqua, vengono ritenuti sintomi di pazzia, ma il lettore, come la sorella di Yeong-hye, In-hye, scopre che non è così facile archiviare una persona come pazza. E credo che sia questa la parte più interessante del romanzo. Se il cognato aveva visto in Yeong-hye, nel suo comportamento strano, una fonte di ispirazione, un canale per liberare la propria arte; la sorella, vede in essa, un metro di paragone. Senso di colpa, responsabilità, domande circa la propria vita vissuta all’insegna di un conformismo, non solo alimentare, ma sentimentale, familiare e sociale, non permettono a In-hye di provare solo pietà per la sorella e bollarla come un caso disperato.
È da condannare il rifiuto di Yeong-hye di mangiare carne, di vivere una vita socialmente accettabile anziché lasciarsi andare, morire, come fondendosi con la natura che è diventata quasi una materializzazione della sua follia?
L’arte è un richiamo che va seguito sempre e comunque, anche quando, oltre che le convenzioni, fa saltare i vincoli di una famiglia?
Siamo sicuri che In-hye sia la vittima di una sorella pazza e un marito artista e traditore e non di se stessa e del proprio conformismo?
Eutanasia, arte, alimentazione: questo romanzo di nemmeno 200 pagine, scritto con una prosa misurata e discreta, lascia il lettore sgomento e lo forza a interrogarsi su argomenti più che mai attuali.