End Zone, Don DeLillo – recensione5 min read
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Voto: 8
Sono gli anni 70, piena guerra del Vietnam, Gary Harkness è un buon running back, non un fuoriclasse, ma uno che sa giocare e anche molto bene. Malgrado sia stato cacciato da da alcuni college per motivi di disciplina viene chiamato dal Logos College, un’università sperduta “nella periferia della periferia del nulla” per la nuova stagione. Gary lo sa è la sua ultima occasione.
Nel college non capita mai nulla, si è isolati dal resto del mondo e così a Gary non rimane che allenarsi, giocare e studiare. Il football è un gioco duro e per vincere la durezza bisogna affidarsi alle regole, agli schemi e muoversi all’unisono sotto gli ordini del coach.
Gary sembra mettere in discussione tutto questo, la stagione va benissimo e lui gioca come gli viene ordinato però non sembra essere felice, è come se fosse ossessionato da un vuoto esistenziale, l’insensatezza della vita sembra dominare il suo animo. Malgrado l’annata perfetta Gary colma il suo vuoto con lo studio e sprofonda in una morbosa attrazione per le teorie di distruzione di massa, delle prove di apocalisse mondiale. In una sorta di esorcizzazione della morte, Gary si avvicina alla forma più estrema di distruzione trattando il tema come se fosse un gioco qualsiasi.
Nel vuoto surreale del college Gary percorrerà un percorso dove il sentirsi inadeguato per questo mondo lo porterà ad un’accettazione dello stesso usando i suoi occhi anziché il filtro che l’università, il coach, i compagni di squadra, la fidanzata e la società in generale gli possono imporre.
Commento:
Ogni volta che leggo Don DeLillo ho come l’impressione che il mio cervello mi stia ringraziando per averlo stimolato con una lettura fatta di concetti che tendono all’assoluto espressi con parole misurate e ben equilibrate. Difronte a un libro di DeLillo non ci troviamo solo difronte a un testo di narrativa dove i fatti seguono altri fatti e così via bensì difronte a un indagine quasi di tipo spirituale del mondo e dell’uomo. Attenzione non sto dicendo che le storie sono delle parabole, dico invece che queste storie raccontano di noi esseri umani di come siamo fatti e di come funziona il nostro cervello. Tutto questo richiede una certa sensibilità da parte dell’autore ma credo anche che alla base ci sia una grande saggezza di fondo.
Quando vi trovate difronte alla Cappella Sistina non vedete solo un affresco vedete una storia, vedete un insieme di pensieri ed emozioni, vedete un’opera che trascende i limiti del pensiero umano e si fa cosa. Capisco che il paragone si fa forte però quando leggo Don DeLillo in effetti mi succede ciò che mi succede quando ascolto un album dei Pink Floyd. Dovete sapere che i PinK Floyd per me non sono solo il mio gruppo preferito, anzi non riuscirei mai a metterli in una classifica, sarebbe riduttivo, per me sono al di sopra di tutto; sono il mio primo pensiero quando parlo di musica, sono fuori concorso, sono qualcosa di più di tutto perché in realtà nella loro musica c’è molto di me, dovessi spiegare a un marziano chi sono direi di ascoltare un loro album. Ebbene questo mi capita con Don DeLillo nelle sue parole, nei suoi concetti c’è molto di me anzi a volte scopro parti di me che non conoscevo. End Zone è il primo romanzo che ha pubblicato eppure mi ha sorpreso perché seppur giovane c’è una maturità paragonabile solo a quella di un vecchio saggio.
Sono stato attirato dal romanzo in quanto mi intrigava la storia di un atleta che a un certo punto smette di mettere al centro della propria vita il gioco che gli dà da vivere per appassionarsi in modo quasi famelico a strategie di distruzione di massa. Mi incuriosiva una cosa così strana. Mi incuriosiva anche la scelta di ambientare la storia all’interno di un college sconosciuto perso nel nulla e dove non accadeva alcunché tranne le partite di football e i corsi universitari. In tutto il romanzo si avverte questo scorrere lento e stanco del tempo e la presenza della noia come condanna e i protagonisti stessi sono più simili a dei carcerati che a dei giovani studenti nel fiore della loro giovane età.
Ma è in un ambiente così piatto, privo di stimoli che l’uomo trova se stesso, tutti i protagonisti sono soli, sono esseri che combattono o convivono con quel lato dell’animo che non gli permette di essere felici. Si parla di football americano, di una squadra, dei suoi avversari e delle sfide che deve affrontare ma in realtà l’avversario vero è dentro ciascun protagonista, in questo libro i personaggi devono vincere il campionato della propria esistenza. Attenzione non è un romanzo di formazione, tutt’altro. Ci sono la paure, il coraggio di superarle e poi ci sono anche gli insuccessi e il fallimento quasi come per dire che non basta diventare adulti perché alla fine si deve sempre fare i conti con la fortuna.
Così il romanzo è ricco di personaggi a partire dal protagonista, Gary, un atleta promettente ma che ha nel suo animo qualcosa che lo inquieta e trova sfogo nello studio maniacale delle strategie di distruzione di massa ma vediamo anche che è un interesse fine a se stesso, lui, infatti, non vuole fare il militare quando gli viene proposto; più semplicemente lui ha bisogno di trastullarsi il cervello con qualcosa che ha del perverso. Vediamo la sua fidanzata, Myna, appassionata di fantascienza e di dolci, che ha un rapporto conflittuale con la bellezza; lei preferisce esser grassa per non attirare gli sguardi su se stessa. Il compagno di stanza di Gary è un ebreo che sta cercando di smettere di essere ebreo e instaura dialoghi incredibili con Gary su religione, universo e sul potere della parola.
La matematica e i massimi sistemi attraversano buona parte del romanzo per arrivare infine al coach Creek che come un Totem personifica la disciplina che ci viene raffigurata come fastidio e fatica ma che ha come risvolto la quiete dell’animo. Il romanzo tocca temi davvero alti e lo fa anche con un linguaggio a volte difficile altre ci troviamo invece gettati in una dimensione che stando in tema di musica definirei psichedelica, motivo per cui non posso fare altro che consigliarne la lettura a chiunque.
Citazione:
La vita interiore va sottoposta a una disciplina, proprio come le mani e gli occhi. La solitudine è forza.