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Dance Dance Dance, chi ha paura dell’uomo pecora?5 min read

18 Agosto 2016 4 min read

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Dance Dance Dance, chi ha paura dell’uomo pecora?5 min read

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Leggere Dance Dance Dance di Haruki Murakami (edizioni Einaudi, 485 pagine, traduzione Giorgio Amitrano) è stata un’esperienza a tratti spaventosa. Sono cresciuto. Ho 43 anni. Non è così facile che un libro mi metta paura. Murakami ci è riuscito. E dire che questo romanzo non racconta una storia particolarmente paurosa, diciamo non più di quelle raccontate da Stephen King, tanto per dire. E allora che cosa lo rende così spaventoso? Due ingredienti magistralmente dosati dall’autore, a mio parere: il buio e l’uomo nero. Partiamo dal primo ingrediente e, nel farlo, raccontiamo per sommi capi la trama senza svelare nulla di sostanziale.
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IL BUIO
La storia è narrata in prima persona. Il protagonista è un 34enne che sente di stare vivendo una vita inutile. È stato lasciato dalla moglie e non è in grado di portare avanti una relazione con una donna. Nemmeno il lavoro gli piace. È un freelance che accetta di scrivere articoli di nessun interesse. Sente che la vita gli sta scivolando via, senza che lui abbia combinato nulla di sostanziale. In altre parole, pensa di essere un fallito. Per dare una svolta alla sua esistenza, torna al Dolphin Hotel, un albergo dove, tempo addietro, aveva passato qualche giorno in compagnia di una squillo. Un albergo a cui si sente legato in modo particolare, come se esso fosse il centro della sua esistenza o comunque il punto da cui ricominciare. Quando torna al Dolphin Hotel, però, trova un luogo diverso, se non opposto a come lo ricordava. Al posto del vecchio edificio ne è sorto un altro, ultramoderno, immenso, dotato di più bar e ristoranti e portato avanti da un personale efficiente e distaccato. Il nuovo Dolphin Hotel, del vecchio, ha conservato solo il nome. Ma c’è ancora qualcosa, un’energia sinistra che si muove all’interno delle sue stanze, dei suoi corridoi.
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A questo punto, vorrei aprire una parentesi: il buio perché faccia paura, in un romanzo, deve essere evocato, più che descritto. Come ho detto tante volte, un romanzo è fatto delle parole che si leggono ma anche di quelle che non sono scritte, ma aleggiano tra la pagina e il lettore. Evocazione non solo dichiarazione o descrizione. Dire che  un corridoio sprofondava in un’oscurità tale che non ci si riusciva più a orientare è una cosa, trasmettere al lettore la sensazione di smarrimento totale, prima fisica e poi mentale, emotiva, è un’altra. E, come ho detto, Murakami riesce alla grande nell’impresa. Per diverse pagine, attraverso il protagonista, ci fa visitare il Dolphin Hotel. Ci fa girare per i suoi corridoi labirintici, ci fa entrare nelle sue stanze tecnologiche, nei bar, i ristoranti, ci fa sedere nella hall dell’albergo per osservare in tutta calma le ragazze della reception, in divisa, che servono al di là del banco, fredde e distaccate. Ogni tanto, tra una salita e una discesa in ascensore ci passa l’informazione che quell’albergo così efficiente e prevedibile, tra un piano e l’altro, potrebbe nasconderne uno in cui tutto è buio e gelido e non ci sono confini. E alla fine, le ante dell’ascensore si aprono e noi, insieme al protagonista, siamo dentro a quell’oscurità. Un oscurità che non eravamo affatto preparati ad affrontare nonostante i continui moniti. E, nella tenebra, chi capita di incontrare?
L’UOMO NERO
Quando ero bambino, dopo che mia madre mi aveva rimboccato le coperte e aveva spento la luce, lasciandomi solo nella stanza, mi capitava spesso di terrorizzarmi pensando che al di là delle tende che coprivano la finestra ci fosse qualcuno. L’uomo nero. A volte, nel buio, mi pareva di scorgere addirittura la punta delle sue scarpe sbucare fuori. L’uomo nero è un essere indefinito, il buio antropomorfizzato, un’entità fantasiosa presente nel folclore di tutti i Paesi (in Italia il Babau) perché prim’ancora che alla cultura, appartiene alle figure arcane della mente infantile. Se vogliamo, l’uomo nero è l’antitesi notturna dell’amico invisibile. Anche qui per evocarlo, più che le parole scritte, un autore deve saper dosare bene quelle suggerite e Murakami ci riesce.
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Nell’Hotel si nasconde una presenza grottesca, irreale e spaventosa da cui il lettore e il protagonista, sono separati da una semplice porta: l’uomo pecora. Chi è esattamente l’uomo pecora? È un cattivo? È veramente un uomo nero? Non voglio svelarvi nulla. Però nella prima parte del romanzo l’autore ogni tanto ne parla. L’uomo pecora… In una stanza potrebbe nascondersi l’uomo pecora… se l’ascensore sale fino al 16esimo piano, forse lì troverai l’uomo pecora… forse l’uomo pecora ti sta aspettando… Mi è sembrato di rivedere quelle scarpe, la punta lucida di cuoio che sbucava oltre il bordo delle tende.
LA DANZA DELLA FANTASIA
Ho parlato solo della parte che fa paura di questo libro, ma in realtà Dance Dance Dance non è un viaggio nell’abisso delle paure totalizzanti, quanto una sciarada. Una fantasmagoria dove succedono cose belle e brutte e s’incontrano personaggi squallidi e nobili, tutti, però, trattati con umanità dall’autore e dove si fa anche una certa satira della società dei consumi che ha contraddistinto gli anni Ottanta (il romanzo è stato pubblicato nel 1988). Lo sforzo vero di Murakami non è evocare il buio per farci paura, ma per comprendere fino a che punto le suggestioni e la fantasia partorite da esso si combinano con la nostra vita reale. Non siamo davanti a un romanzo splatter, a un horror, niente del genere. Ma a una storia a tratti fantastica e oscura, ma il cui intento è fare luce.
Dialoghi bellissimi, personaggi trattati dall’autore con grande sensibilità e una trama che tiene, avrete capito che Dance Dance Dance è un libro da leggere.
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