L’addio di Antonio Moresco – recensione4 min read
Reading Time: 4 minutesOrmai la diatriba è vecchia: Antonio Moresco, candidato allo Strega con il suo ultimo romanzo, L’addio (Giunti editore), vistosi estromesso dalla cinquina dei finalisti, si lamentava con una lettera pubblicata su Repubblica dove imputava il Premio di essere nient’altro che un gioco truccato a cui lui, a 68 anni, aveva avuto l’ingenuità di partecipare.
Un po’ incuriosito dalla chiacchiera intorno al romanzo, un po’ dalla trama che aveva in sé elementi fantastici e di cui mi ero fatto una vaga idea leggendone su Internet, ho deciso di comprarlo.

Ecco, partiamo dalla trama, senza svelare nulla più di quanto ci rivelano le varie sinossi degli store online: D’Arco è un poliziotto morto che indaga nella Città dei morti. Ben presto si imbatte in bambini (uccisi) che cantano, struggono l’oscurità eterna con le note pulite e innocenti delle loro voci. Per capire come mai tutti questi bambini sono stati ammazzati e stanno cantando, D’Arco ritorna nella Città dei vivi per indagare. Da queste poche informazioni capiamo subito che L’addio è un poliziesco filosofico o teologico, insomma, un romanzo di genere che trascende il genere per fare del suo oggetto d’indagine le questioni cardine della nostra esistenza: da dove viene il male? Qual è il vero rapporto tra la vita e la morte? E la morte è forse anteriore alla vita? Qual è il senso di tutto ciò?
Il problema del romanzo di Moresco è che è bello da raccontare, ma, leggendolo, risulta meno misterioso, meno intrigante e meno inquietante. Manca di polpa, materia oscura, di ciò che in un romanzo non si può raccontare, ma solo percepire. Manca, insomma, di evocazione sinistra. È un succedersi di eventi lungo la parabola di una trama che non solo si racconta, ma si spiega da sé, enuncia al lettore i suoi risvolti metaforici, dichiara il proprio mistero anziché trasmetterlo attraverso la lettura come un virus. In questo senso, il romanzo di Moresco è una storia fantastica, ricca di spunti, ma bidimensionale come potrebbe esserlo un fumetto di Dylan Dog (senza nulla togliere a Dylan Dog ovviamente). O, se vogliamo spingere ancora oltre la sua bidimensionbalità, è come un videogioco, specie nelle scene di azione: lo sbirro morto, ritornato nella Città dei vivi, da autentico giustiziere, uccide tutti i cattivi che gli capitano a tiro e la serialità degli assassini è tale, così lineare e monotona che mentre leggevo mi sembrava di giocare a uno sparatutto o a un survival horror come Dead Island o Resident Evil.
Per spiegarmi meglio, prendo in causa un altro romanzo che utilizza il genere per raccontare altro: Cosmo di Witold Gombrowicz . Anche qui la trama comincia con un’indagine. Due amici fanno una gita in montagna. Nel corso della camminata si imbattono in una serie di impiccagioni: un uccello, poi bastoncini appesi, un gatto strangolato e infine un uomo suicidatosi. Credono di essere sulla pista di qualcosa come se questi soffocamenti fossero collegati l’uno all’altro. Scorgono altri indizi che sembrano risalire a un disegno medesimo, come bocche storte, macchie, crepe. In realtà i due individui sono vittime del caos cosmico che non si lascia ordinare. La loro indagine è vana come la vita e più che per lucida curiosità filosofica, sembra mossa da associazioni fatte per noia, dal disgusto per il nonsenso dell’esistenza. Un disgusto di cui si fa interprete la narrazione sempre più farraginosa, frammentata, fino a diventare, negli ultimi capitoli, un balbettio sincopato.
“Cosmo è per me qualcosa di nero, prima di tutto nero, come una nera ribollente corrente piena di gorghi, di arresti, di ristagni che trascina con sé mille residui“, aveva dichiarato l’autore. Ebbene, tale materia, più che le speculazioni filosofiche, è il reale oggetto del racconto. Il caos in cui l’indagine dei protagonisti affoga. C’è poco di spiegato, in questo romanzo, e molto di trasmesso, suggerito.
La casualità è ciò che manca a L’addio. Un senso di latenza che si sprigioni dalle parole, che vada oltre la trama. Prendiamo un altro autore, Kafka. Perché siamo qui a parlare ancora della Metamorfosi, a più di 100 anni dalla pubblicazione? Perché siamo qui a chiederci se la storia dell’uomo che si trasforma in insetto sia un’allegoria della condizione umana, una metafora della dipendenza dell’autore dalla famiglia o semplicemente un racconto dell’orrore su un tizio che si trasforma in insetto? Perché il suo significato ultimo ci sfugge. Perché c’è qualcosa di non detto, di non chiaro. Perché L’addio di Moresco, con la sua prosa didascalica, con le sue descrizioni ridondanti dell’orrore e della violenza, con la sua escalation di omicidi ci fa uscire dalla sua lettura più esausti che inquieti? Perché la storia si chiarisce da sola nel suo essere tremenda. Nulla ci sfugge e anzi, tutto è ribadito.
Alla fine, i romanzi di Moresco sono un manifesto di cosa dovrebbe essere la letteratura – immersione nelle inquietudini, senso del destino, vita, morte, amore, odio….
Una dichiarazione dei suoi valori, ma non una loro trasmissione.