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Stephen King è un grande scrittore?4 min read

19 Giugno 2016 4 min read

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Stephen King è un grande scrittore?4 min read

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È dal 1974, anno di pubblicazione del suo primo romanzo, Carrie, che ci si chiede se il Re dell’horror sia un autore importante, dal punto di vista letterario, o una macchina da bestseller dalla fama consolidata e l’istinto (è proprio il caso di dirlo) seriale nel riconoscere tematiche e costruire trame che catturino i lettori.
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Qualcuno ha provato a rispondere. Negli anni Settanta e Ottanta, quelli del boom di Stephen King, il suo successo era inversamente proporzionale alla stima che gli accordavano i critici. C’è da dire che a quei tempi, la critica era molto meno propensa a considerare il successo popolare qualcosa che può accompagnarsi alla qualità letteraria. E King era (è e sarà) strapopolare. Un autore che riusciva (riesce tutt’ora) a mescolare i generi (fantasy, horror, fantascienza) con abilità, cavalcando la sensibilità dei tempi e, a volte, anticipandola.
Ricordiamoci che 26 anni prima della trilogia di Hunger Games, King scriveva L’uomo in fuga romanzo critico sul “cannibalismo” dell’industria dello spettacolo e che anticipava la problematica dell’intrusione tecnologica tanto sentita oggi. Per non parlare di Misery, un romanzo sulle conseguenze della celebrità e il rapporto tra star e fan, scritto nel 1987 e che in tempi di fanfiction, torna quanto mai attuale.
Ma torniamo alla domanda: King è un bravo autore?
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A rispondere si era scomodato addirittura Harold Bloom, celeberrimo critico, autore del Canone occidentale saggio dove stabilisce le opere chiave della nostra civiltà. Ciò era accaduto nel 2003, quando King aveva ottenuto il riconoscimento della US National Book Foundation per i suoi meriti letterari (più recentemente ha ricevuto la National Medal of Arts). Bloom, indignato, aveva commentato che il riconoscimento era l’ennesimo colpo assestato alla cultura e che King era un autore di bassa lega che non aveva niente da spartire con penne come Edgar Allan Poe, a cui era stato affiancato, perché la sua era una scrittura basata sulla frase per frase, paragrafo per paragrafo, libro per libro, senza alcuna originalità.
L’originalità è determinata dallo stile e lo stile è fondamentale quando si valuta uno scrittore. È il suo tratto distintivo, la sua voce. Ma il fatto che King non abbia una prosa infarcita di argot e musicale come quella di Céline o arcaica e ottocentesca come quella di Landolfi, non significa che non possieda una voce. La sua voce è limpida, diretta, come quella di Buzzati o, per scomodare un nome ancora più illustre,  Dickens. È lineare, ma verosimile e matura, ed è questo che si chiede a un grande autore. Riguardo a Dickens, ci sono parecchie analogie con King, evidenziate da un autore horror come Peter Straub: entrambi sono popolari, accessibili e rivolgono la loro attenzione alla classe disagiata (i poveri e i piccolo borghesi della provincia americana King, gli sfruttati della rivoluzione industriale che investì l’Inghilterra Dickens).
Archiviata la “questione stile” rimane quella più conclusiva, riguardante la poetica. Il nucleo emotivo e tematico che contraddistingue un autore e gli dà peso letterario. Qui, ho qualche dubbio. Intendiamoci, reputo King migliore di tanti autori ritenuti “seri” di questa epoca. Se volete conoscere la provincia americana, quella lontana da Los Angeles, New York e le realtà che, attraverso Hollywood, hanno trovato vasta eco, diventando dei luoghi quasi universali, leggetevi Raymond Carver, ma anche Stephen King. Leggetevi, ad esempio, i racconti della sua ultima antologia, Il bazar dei brutti sogni.
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Il libro è l’ennesima prova della capacità del Re di giocare su più registri, mescolare tematiche, inventare personaggi diversi e credibili. Tuttavia, chiusa questa raccolta e ripensando ai romanzi letti in passato, se mi chiedo quale sia il nucleo poetico di King, ecco che la risposta non viene così immediata.
La poetica di King non è la solitudine dell’uomo perso nella società dei consumi, raccontata da Carver, Salinger, Bukowski; non è l’ossessione, la tensione verso l’assoluto, raccontata da Melville e, diciamolo, non è nemmeno la paura. Veramente It o Pet Sematary vi hanno suscitato la stessa angoscia della Metamorfosi di Kafka? Veramente l’Overlook Hotel è un luogo più spaventoso del castello in cui il protagonista dell’omonimo romanzo cerca di entrare? Di sicuro non ha la stessa valenza metaforica sull’esistenza.
Kafka ed altri grandi autori hanno provato disagi e angosce che King è stato in grado di rielaborare e rilanciare con romanzi di successo, ma la sua prosa non ha illuminato nuovi scorci sull’oscura anima dell’uomo.
King sa raccontare tutto. È un luna park, una visione d’insieme fantastica e affascinante ma che si ferma in superficie.
Kafka è la tenda dietro cui si nasconde un freak pauroso.
Kafka ha detto poco ma lasciato molto.
King ha detto tutto. Tra trent’anni cosa rimarrà?
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