La concezione del tempo in Game of Thrones e Cent’anni di solitudine5 min read
Reading Time: 4 minutesSPOILER ALERT SU GAME OF THRONES E05S06 E CENT’ANNI DI SOLITDUINE
Avete mai letto Cent’anni di solitudine? No? Allora correte a comprare questo stupendo romanzo in libreria o scaricatelo dalla rete. Se invece lo avete letto, e siete fan del Trono di spade vorrei discutere con voi le analogie tra il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez e la serie tv fantasy, soprattutto alla luce di quanto avvenuto nell’ultima puntata – intitolata “The Door” – della sesta stagione in onda in lingua originale su SkyOnline.
Ormai Game of Thrones ha adottato una concezione del tempo circolare. Bran, metamorfo, riesce a viaggiare indietro nel tempo. Forse può addirittura modificarlo, visto che, nell’episodio quattro, dopo aver viaggiato in un punto del passato in cui non è ancora nato, chiama il padre Ned e questi, senza vederlo, si volta come se avesse percepito un richiamo. Ma, come dicevamo prima, la cosa che sorprende è la circolarità temporale.

Nell’episodio 05, l’ultimo mandato in onda, Bran compie l’ennesimo viaggio mentale, aggrappato alle radici di un albero-diga. Per la verità compie due viaggi decisivi: il primo all’origine dei tempi, dove un umano, legato a un tronco, viene trapassato con una pietra magica da uno dei Figli della Foresta, una razza umanoide, simile a folletti, che in tempi antichissimi abitavano il continente di Westeros. Nel momento in cui l’uomo viene trafitto, diventa un white walker, un estraneo, e, per la precisione, il Night King. Uno dei Figli superstiti spiegherà poi a Bran che la sua razza era stata costretta a creare gli estranei per difendersi dagli umani.

Il secondo viaggio nel tempo, avviene in un momento più recente della storia di Westeros. Bran “ritorna” a Grande Inverno e vede Hodor quando era poco più che un bambino, aveva ancora facoltà di parola ed era chiamato col suo nome di battesimo Wylis. Ed è qui che il tempo smette di essere lineare e diventa circolare. Nel presente, fisicamente, Bran è in stato di trance e sta per subire, insieme a Hodor l’attacco degli estranei, nella sua mente si trova nel passato. Quando gli estranei sfondano la barriera del fuoco e penetrano nella grotta dove affondano le radici dell’albero, Meera ordina a Hodor di alzarsi e fuggire, trainando la lettiga ove è steso Bran. Il metalupo e i Figli della Foresta si sacrificano per far sì che il ragazzo fugga attraverso un tunnel al termine del quale vi è una porta. Hodor, Meera e Bran aprono e richiudono la porta un secondo prima che gli estranei li raggiungano.
A questo punto Meera chiede, ordina, implora Hodor di sacrificarsi e rimanere appoggiato alla porta per tenere gli estranei lontani e permettere a lei e a Bran di fuggire. “Hold the door!” (“reggi la porta”) gli ordina a più riprese, mentre si allontana nella neve e nella notte trainando la lettiga.
È a questo punto che il tempo diventa circolare. Perché mentre nel presente Meera continua a ripetere “Hold the door!” a Hodor, questi, nel passato, ovvero nella mente di Bran dove è ancora un ragazzo di nome Wylis, sviene, ha le convulsioni e comincia a balbettare “Hold the door… hold the door… hold the door…” il medesimo richiamo che in un’altra dimensione temporale gli viene ripetuto senza sosta. Presente e passato, visione e realtà coincidono. Il giovane Wylis ripete ossessivamente quasi in un attacco epilettico “Hold the door” compiendo la crasi delle tre prole che diverrà il suo nome “Hodor“. L’unica parola che sa dire. La parola che ha segnato il suo destino.
Ora, la stessa circolarità temporale avviene in Cent’anni di solitudine. Il romanzo racconta la storia di una famiglia, delle sue generazioni che tentano di fuggire un destino che in realtà era già stato scritto sin dall’inizio. Nel romanzo, infatti, José Arcadio, il capostipite della famiglia Buendia, tra i fondatori del villaggio di Macondo, incontra lo zingaro Melquiades, il quale, prima di morire, gli consegna delle pergamene scritte di suo pugno, apparentemente indecifrabili. Più membri della famiglia Buendia, nel corso della storia, tentano la cifratura che, alla fine, riuscirà solo all’ultimo appartenente, Aureliano, il quale, in una visione, capirà in che modo decrittare i versi, troverà le pergamene e traducendole si vedrà praticamente allo specchio, ovvero leggerà il proprio destino pochi secondi prima di compiersi:
SPOILER FINALE ROMANZO
” Aureliano saltò undici pagine per non perdere tempo con fatti fin troppo noti, e cominciò a decifrare l’istante che stava vivendo, e lo decifrava man mano che lo viveva, profetizzando se stesso nell’atto di decifrare l’ultima pagina delle pergamene, come se si stesse vedendo in uno specchio parlante. Allora saltò oltre per precorrere le predizioni e appurare la data e le circostanze della sua morte. Tuttavia, prima di arrivare al verso finale, aveva già compreso che non sarebbe mai più uscito da quella stanza, perchè era previsto che la città degli specchi ( o degli specchietti) sarebbe stata spianata dal vento e bandita dalla memoria degli uomini nell’istante in cui Aureliano Babilonia avesse terminato di decifrare le pergamene, e che tutto quello che vi era scritto era irripetibile da sempre e per sempre, perchè le stirpi condannate a cent’anni di solitudine non avevano una seconda opportunità sulla terra.”
Ci sono poi altre analogie: l’albero, simbolo del tempo, delle sue infinite ramificazioni che risalgono tutte a un destino comune, luogo d’intreccio tra presente e passato. Anche in Cent’anni di solitudine l’albero è un porto franco dal punto di vista temporale: José Arcadio, divenuto folle, viene legato a un tronco presso cui riceve puntualmente la visita di Prudencio Aguilar, il fantasma del rivale che aveva ucciso. E poi il tema della profezia, se nel romanzo contenuta nelle encicliche di Melquiades, nella serie tv, nelle parole delle sacerdotesse interpreti del Signore della Luce che prevedono l’incarnazione di Azor Ahai, il guerriero che salverà l’umanità.