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Gli scrittori e l’odio per l’avverbio2 min read

28 Settembre 2015 3 min read

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Gli scrittori e l’odio per l’avverbio2 min read

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Un qualsiasi manuale di scrittura creativa li considera fumo nell’occhio: parliamo degli avverbi con suffisso in “mente”. Lunghi, inutili, sono come una sbavatura in fin di frase che rovina l’essenzialità del periodo.
L’avverbio, come il punto e virgola, non è necessario e, qualunque editor, tenderà a prediligere una scrittura necessaria a una descrittiva. Perché il potere della scrittura è evocare. Scrivere le parole indispensabili sulla pagina a delineare una storia, lasciando le altre all’immaginazione del lettore.
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Mark Twain più che consigliare, ordinava di uccidere gli avverbi (“If you see an adverb, kill it”). Stephen King li ha definiti “parole che modificano verbi, aggettivi o altri avverbi” e consiglia di starne lontani. Elmore Leonard, nelle sue dieci regole per scrivere narrativa, incoraggia a “non usare mai un avverbio per modificare il verbo ‘ha detto'”.
Di massima, questa regola è sempre valida anche perché in un manoscritto c’è più da sottrarre che da aggiungere e non di rado ciò che deve essere sottratto sono avverbi e aggettivi. Però è anche vero che l’avversione per gli avverbi come per gli aggettivi e la predilezione di una prosa sintetica e immediata sono le conseguenze di una dittatura, quella dell’editoria americana che ha imposto i registri stilistici della lingua anglofona anche a chi non scrive in inglese, e una narrativa cinematografica, basata sui fatti contro ogni velleità letteraria.
Dicevo, si tratta di una regola giusta, tutto sommato. Ma in una disciplina che ha poco dello scientifico e molto del personale, come la scrittura creativa, potrebbe essere anche una regola che smorza ogni originalità e ci conduce a una narrativa standardizzata senza scampo.
Prendiamo il seguente passo:
In uno scuorante quartiere d’una città essa medesima per tanti versi scuorante, al primo piano d’una casa borghese vivevano due zittelle colla vecchia madre. E buon per il lettore ch’io non sento il dovere, che a quanto sembra altri sente imperioso, di descrivere minutamente simili luoghi“.
È l’incipit di un romanzo breve di Tommaso Landolfi, Le due zittelle. In queste poche righe ci sono diverse infrazioni al regolamento del bravo scrittore: aggettivi ripetuti (scuorante), cascami letterari, un avverbio (minutamente).
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Landolfi è scrittore di atmosfere; lugubri, fantastiche, autunnali. E queste atmosfere non sono evocate con vampiri, licantropi o trame dal ritmo serrato, cose in cui un Stephen King è certamente maestro, ma spesso con l’uso sapiente del linguaggio. Un linguaggio pieno di rimandi ad altre lingue, dialetti e che con l’uso di avverbi e aggettivi è in grado di risvegliare uno stato d’animo nel lettore. Diceva, Calvino, che Landolfi era il primo scrittore dopo D’Annunzio che si divertiva con la lingua italiana e poteva farne ciò che voleva.
Certo  che prima di scrivere come Landolfi, bisognerebbe imparare a scrivere. E una delle lezioni da apprendere è appunto quella della sintesi.
Se rileggendo quello che hai scritto, trovi un avverbio, prova a cancellarlo per vedere come fila il discorso senza. Se fila bene e, tutto sommato, quell’avverbio è una perdita che puoi tollerare, allora hai fatto bene a sopprimerlo.
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