Gli scrittori e l’odio per l’avverbio2 min read
Reading Time: 3 minutesUn qualsiasi manuale di scrittura creativa li considera fumo nell’occhio: parliamo degli avverbi con suffisso in “mente”. Lunghi, inutili, sono come una sbavatura in fin di frase che rovina l’essenzialità del periodo.
L’avverbio, come il punto e virgola, non è necessario e, qualunque editor, tenderà a prediligere una scrittura necessaria a una descrittiva. Perché il potere della scrittura è evocare. Scrivere le parole indispensabili sulla pagina a delineare una storia, lasciando le altre all’immaginazione del lettore.
Mark Twain più che consigliare, ordinava di uccidere gli avverbi (“If you see an adverb, kill it”). Stephen King li ha definiti “parole che modificano verbi, aggettivi o altri avverbi” e consiglia di starne lontani. Elmore Leonard, nelle sue dieci regole per scrivere narrativa, incoraggia a “non usare mai un avverbio per modificare il verbo ‘ha detto'”.
Di massima, questa regola è sempre valida anche perché in un manoscritto c’è più da sottrarre che da aggiungere e non di rado ciò che deve essere sottratto sono avverbi e aggettivi. Però è anche vero che l’avversione per gli avverbi come per gli aggettivi e la predilezione di una prosa sintetica e immediata sono le conseguenze di una dittatura, quella dell’editoria americana che ha imposto i registri stilistici della lingua anglofona anche a chi non scrive in inglese, e una narrativa cinematografica, basata sui fatti contro ogni velleità letteraria.
Dicevo, si tratta di una regola giusta, tutto sommato. Ma in una disciplina che ha poco dello scientifico e molto del personale, come la scrittura creativa, potrebbe essere anche una regola che smorza ogni originalità e ci conduce a una narrativa standardizzata senza scampo.
Prendiamo il seguente passo:
“In uno scuorante quartiere d’una città essa medesima per tanti versi scuorante, al primo piano d’una casa borghese vivevano due zittelle colla vecchia madre. E buon per il lettore ch’io non sento il dovere, che a quanto sembra altri sente imperioso, di descrivere minutamente simili luoghi“.
È l’incipit di un romanzo breve di Tommaso Landolfi, Le due zittelle. In queste poche righe ci sono diverse infrazioni al regolamento del bravo scrittore: aggettivi ripetuti (scuorante), cascami letterari, un avverbio (minutamente).
Landolfi è scrittore di atmosfere; lugubri, fantastiche, autunnali. E queste atmosfere non sono evocate con vampiri, licantropi o trame dal ritmo serrato, cose in cui un Stephen King è certamente maestro, ma spesso con l’uso sapiente del linguaggio. Un linguaggio pieno di rimandi ad altre lingue, dialetti e che con l’uso di avverbi e aggettivi è in grado di risvegliare uno stato d’animo nel lettore. Diceva, Calvino, che Landolfi era il primo scrittore dopo D’Annunzio che si divertiva con la lingua italiana e poteva farne ciò che voleva.
Certo che prima di scrivere come Landolfi, bisognerebbe imparare a scrivere. E una delle lezioni da apprendere è appunto quella della sintesi.
Se rileggendo quello che hai scritto, trovi un avverbio, prova a cancellarlo per vedere come fila il discorso senza. Se fila bene e, tutto sommato, quell’avverbio è una perdita che puoi tollerare, allora hai fatto bene a sopprimerlo.