Come i social media stanno cambiando il romanzo6 min read
Reading Time: 5 minutesarticolo di Fabio Deotto per Wired.it
Quando nel gennaio scorso Dennis Cooper annunciò di aver “scritto” e “pubblicato” il primo romanzo composto interamente da GIF animate, molte persone (me compreso) pensarono a un furbo espediente per spiccare in un ambiente sovraffollato come quello letterario.
Quello che molti (me compreso) al tempo non sapevano, era che Dennis Cooper non è un arrivista qualunque, il classico personaggio che prende in mano la penna per la prima volta, magari senza aver letto che una manciata di libri, e trova il modo per camuffarsi da artista. Prima di dedicarsi alla cosiddetta GIF Novel, Dennis Cooper aveva pubblicato una ventina di volumi tra narrativa, poesia e saggistica, negli anni ’70 era stato coinvolto nei primi movimenti punk e aveva collaborato con artisti del calibro di John Zorn. Forse è per questo che, nonostante Zac’s Haunted House del romanzo non abbia praticamente nulla (se non una artificiosa suddivisione in prologo, capitoli ed epilogo), Cooper è riuscito a imporsi come pioniere di una nuova avanguardia letteraria, capace di integrare il linguaggio e la forma dei social media nella struttura del romanzo tradizionale.
A voler essere magnanimi, Zac’s Haunted House è un’opera d’arte concettuale, una sorta di collage scorrevole dove la narrazione è affidata unicamente alla giustapposizione di immagini animate rubate da cartoni, film, video di youtube, documentari e show televisivi. Non esiste una vera storia, non esistono protagonisti riconoscibili, ma soprattutto, a differenza di un vero romanzo, il “lettore” non ha alcuna parte attiva nella narrazione. L’opera di Cooper può essere unicamente fruita, e una volta terminata la “lettura”, non rimane altro che una vaga sensazione (che può essere curiosità, disagio o fascino).
Considerata la debolezza narrativa della GIF novel di Cooper, verrebbe da pensare che social media e letteratura siano due rette destinate a non incontrarsi mai, quando invece la storia dimostra il contrario. Esempi di ibridazione tra il linguaggio delle piattaforme digitali e quello della narrativa tradizionale esistono fin dai tempi delle connessioni a 28K. Basti pensare agli scrittori che si sono fatti le ossa nei blog per poi trasferirne su carta l’impostazione frammentata (uno dei casi più recenti e interessanti è quello di Emmanuela Carbé); o agli esperimenti di scrittura collettiva, come quello ideato da SIC (Scrittura Industriale Collettiva), network attivo dal 2007 che ha coordinato più di 100 autori nella stesura del romanzo con più autori della storia (In Territorio Nemico, pubblicato da Minimum Fax nel 2013).
In questi casi il romanzo importa dai media digitali elementi formali e un approccio collaborativo, non mancano però esempi di autori che hanno provato a trasporre in forma romanzata anche la lingua e la struttura frammentaria tipica dei social media. Penso in particolare ad opere nate in forma embrionale come status Facebook e poi sviluppati in forma cartacea, come I dirimpettai di Fabio Viola – finalista all’ultimo Premio Strega -, e il più recente Tranquillo prof., la richiamo io di Christian Raimo.
Twitter, in questo senso, si è rivelato un terreno di coltura particolarmente fertile, tanto che da alcuni anni esiste un evento dedicato all’evoluzione di Twitter come piattaforma per lo storytelling: il Twitter Fiction Festival. È dai tempi di Georges Perec che gli autori sperimentano nuove forme di scrittura imponendosi nuovi limiti: Perec si forzava a scrivere romanzi senza utilizzare una specifica lettera, altri autori stanno usando Twitter per imporsi un ritmo a 140 caratteri.
Nel maggio del 2012, Jennifer Egan, fresca di Premio Pulitzer, scrisse un racconto breve intitolato Black Box che poi pubblicò un tweet per volta sull’account Twitter del New Yorker. L’idea era potenzialmente valida, ma l’esperimento si rivelò un mezzo fiasco: quello di Egan era un racconto tradizionale frantumato e singhiozzato in pacchetti di 140 caratteri. Questa cosa si percepiva in modo pesante nella lettura, che risultava inutilmente difficoltosa, come se la narrazione inciampasse di continuo. Teju Cole ebbe un’idea più efficace: nel 2014 confezionò un racconto chiamato Hafiz, retwittando i contributi di altri follower a cui era stato chiesto di descrivere una persona colpita da un attacco cardiaco.
C’è poi Nicholas Belardes, autore americano che, dopo aver ottenuto una certa visibilità nel 2008 millantando di aver scritto la prima Twitter novel (una storia d’amore in 900 tweet), ora sta cercando di non scivolare nel dimenticatoio scrivendo la prima Ello novel: un romanzo intitolato So Long che verrà pubblicato interamente sulla piattaforma Ello. Ora, manca solo che Belardes trovi il modo di scrivere un romanzo che vada trovato capitolo per capitolo facendo ricerche su Google, e diventerà il re dei progetti narrativi di cui nessuno sentiva il bisogno.
Per fortuna esistono anche casi virtuosi, come quello di Andrea Maggiolo. Classe 1982, torinese, nel 2009 ha aperto un account Twitter chiamato @Micronarrativa dove raccoglie storie lunghe un tweet, dei piccoli gioielli in cui l’autore dimostra come sia possibile fornire le coordinate di intere vite in 140 caratteri.
Naturalmente siamo solo all’inizio. Piaccia o meno, qualunque innovazione in ambito comunicativo prima o poi finisce per influenzare nuovi modi di scrivere e raccontare (basti pensare all’influenza che hanno avuto il cinema e le serie-tv). In questo senso le nuove tecnologie hanno prodotto una frattura difficilmente recuperabile: i social media hanno trasformato le argomentazioni in frasi ad effetto; Twitter ha fatto piazza pulita delle sfumature di significato, di molti aggettivi e dei termini più articolati; Facebook ci ha abituati a singhiozzare post invece che intavolare discorsi, e il multitasking è intervenuto ad accelerare la transizione.
Che i social media stiano influenzando la letteratura è evidente dal numero crescente di opere che sembrano voler riprodurre da un lato la struttura frammentata di una società sempre più caotica e precaria, dall’altro la lingua di un’epoca isterica, senza respiro, persa in un eterno multitasking comunicativo.
In particolare, questo vale per il nuovo romanzo di Jenny Offill, Sembrava una felicità (NN editore, 2014) in cui l’autrice racconta la vita di una madre single utilizzando paragrafi di poche righe che sembrano prendere in prestito la forma e il linguaggio ora dei post di Facebook o di Twitter, ora delle email, ora degli sfoghi da blog, ma senza mai citare uno solo di questi strumenti. La pagina rimane quella di un libro tradizionale, un libro che sembra scritto da una persona che ha (o si concede) poco tempo per troppe cose, ormai incapace di introspezioni approfondite, eppure determinata a comunicare e archiviare sensazioni, epifanie improvvise, frammenti decontestualizzati di realtà. Il risultato è un libro incredibilmente frammentato che ha il passo e il ritmo di un romanzo tradizionale.
Lo scorso 10 settembre, Dennis Cooper ha pubblicato un altro romanzo fatto solo da GIF, intitolato Zac’s Control Panel. Ma basta leggere qualche pagina di Jenny Offill per avere l’impressione che, più che un pioniere, Dennis Cooper sia già un antiquario.
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