La febbre della nuova narrativa italiana3 min read
Reading Time: 3 minutesarticolo di Paolo Armelli per Wired.it
Nel 2004 minimum fax pubblicava La qualità dell’aria, una raccolta di racconti che voleva fotografare il panorama della narrativa italiana under 40 e, attraverso quella, il contesto socioculturale dell’epoca che l’aveva originata (erano coinvolti scrittori oggi di grande rilievo come Covacich, Parrella, Cognetti). A distanza di una decina d’anni la stessa casa editrice pubblica L’età della febbre.
L’intento dei curatori, Christian Raimo e Alessandro Gazoia, è quello di raccontare, al di là degli stereotipi abusati, quella “quest collettiva” che accomuna questi autori non ancora quarantenni: rappresentare, cioè, “quella sensazione di non riuscire a tenere il passo” che è “il più sincero sentimento del presente“. La narrativa dell’Italia nella “vita precaria“ appare attraverso questi racconti molto lontana dall’immagine di un Paese stanco, arreso, frustrato. Anzi il risultato è quello di una realtà magnatica, in divenire, dai contorni vagamente marcati e in generale insofferente a ogni definizione troppo statica. C’è del tormento, dell’inquietudine ma anche tanto sforzo alla speranza.
I temi sono quelli percepiti come attualissimi: gli Erasmus infiniti, il traumatico e mai del tutto compiuto passaggio alla vita adulta, le bollette non pagate, i giovani senza prospettive, l’omosessualità (tematica su cui si concentrano molti racconti, a volte con superficialità altre con efficace empatia). Spuntano però anche temi considerati “vecchi”, ma evidentemente ancora sentiti: l’AIDS, il satanismo, la violenza non sui ma dei bambini.
Gli autori di questa “meglio gioventù” letteraria sono delle più differenti estrazioni ed esperienze, e anche i loro esiti sono estremamente diversificati. Certi personaggi sono talmente riusciti in qualità di “figli del tempo” che il lettore sembra portarseli poi dentro: il ragazzino senza nome dalla maturazione scarnificante in “Le cose che lui ha fatto per arrivare a te” di Violetta Bellocchio, la spogliarellista per caso Caterina di “Cleopatra va in prigione” di Claudia Durastanti, la banda di amici inevitabilmente volti alla tragedia in “Television Version” di Antonella Lattanzi. Altri esempi sono sospesi fra un espressionismo quasi apocalittico (“Il prodotto interno lordo” di Giuseppe Zucco; “Il casco verde” di Paolo Sortino; “Alta Marea” di Emmanuela Carbé, che si avventura forse troppo arditamente nelle note a piè di pagina come il compianto David Foster Wallace) e un realismo coraggioso nei temi ma quasi conservatore nella forma (“Quel sollievo” di Vincenzo Latronico, “Un posto nel mondo” di Rossella Milone, “Emma&Cleo” di Vanni Santoni).
Se si parla di stile, in effetti, sembra che non si sia formato ancora un nuovo modo di fare letteratura che sia proprio di quest’epoca e a volte, addirittura, il timore della sperimentazione fa volgere a modelli già visti. Spicca ancora più per originalità il graphic novel (“I giorni della merla”, un misterioso capitolo dall’opera di Manuele Fior), vero genere caratteristico degli anni Dieci. In generale, comunque, a voler giudicare lo stato di salute della narrativa italiana a partire da questi testi, l’immagine della febbre sarebbe effettivamente la più adatta: nel sistema c’è qualche sintomo di malattia e stanchezza, ma anche tante energie pronte ad essere liberate, perfezionate, rinnovate.
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