Nel nome della rosa io ti frusto! – Alfio Squillaci sul capolavoro di Umberto Eco6 min read
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Nel 1980, Umberto Eco pubblicava presso Bompiani, il romanzo giallo che lo rendeva celebre in tutto il mondo, Il nome della rosa. Recentemente, di questo libro, mi è capitato di parlare a Lucca Comics & Games con Licia Troisi che lo ritiene il suo romanzo preferito: “L’ho letto un sacco di volte, non ricordo più quante”. Personalmente anche io ho amato questo libro che ritengo qualcosa di più di un pastiche letterario. Navigando in rete mi sono imbattuto in un articolo molto critico, firmato Alfio Squillaci per il sito La Frusta. Ve lo propongo, vale la pena leggerlo. E magari commentarlo.
Dopo i saggi Opera aperta e La struttura assente, capisaldi della strumentazione critica dello strutturalismo italiano, Umberto Eco tenta sorprendentemente nel 1980 il romanzo, genere low less per eccellenza, e ne riporta un successo planetario in termini di vendite e di meritata celebrità. Il fine semiologo abborda il genere nelle sue forme più popolari e popolaresche, il giallo, nelle forme ossia iperstrutturate dell’inchiesta commissariale, e adottando la tecnica narrativa consegnata dalla tradizione (il manoscritto ritrovato e rifatto, topos manzoniano e ancor prima cervantesiano), non rinunciando a tutte le malizie del romanzo-feuilleton, di cui peraltro a più riprese s’era dichiarato entusiasta ed attento esegeta. (Bastava leggere le Bustine sull’Espresso di quegli anni: ricordo l’effetto cric, rilevato nei romanzi di Dumas, ossia l’evidenziazione di un’economia dei mezzi narrativi, al fine di raggiungere col minimo sforzo il massimo rendimento).
Tutto ciò, però, si poneva come un clamoroso “contrordine compagni” rispetto agli orfismi estenuati dell’”opera aperta”, perché qui ci troviamo, invero, davanti ad un’opera “chiusa” come un vecchio baule della nonna, ossia fortemente strutturata e “pensata” a freddo e con forti debiti verso la tradizione narrativa. L’incipit è dei più canaglia, da Snoopy: «Era una bellla mattina di fine novembre», pericolosamente simile a «La marchesa uscì alle cinque» – che faceva dire a Paul Valéry di odiare il genere romanzo perché fatalmente si sarebbe imbattuto in frasi come questa . Di più: tutti gli snodi narrativi, compreso l’epilogo, sono degni del miglior romanzo ferroviario, nel senso più alto della locuzione, ossia di una scaltra e intelligente uncinazione del lettore. Ma Il nome della rosa si giova anche di un impianto colto e professorale che ce lo rende tuttavia godibile ad ogni pagina, e, come I promessi sposi , organizza la propria materia secondo il principio del “multilivello”: da un lato la storia con il plot a ‘cavaturaccioli’ per i lettori più inconsapevoli, e dall’altro il prulirilinguismo e la pluridiscorsività (e le eresie e illatinorum) per i palati più raffinati, soddisfacendo -come viene fatto qui eccellentemente – la duplice istanza di non rinunciare né alla propria anima né alla grande massa dei lettori, e di catturarne pertanto il maggior numero possibile, dal colto pubblico all’inclita guarnigione – come si diceva una volta -, e non soltanto glihappy fews. Preoccupazione estetica non scontata, invero, ove si considera che “narratori” come Arbasino – tanto per fare il nome di uno scrittore della stessa generazione di Eco e che partiva da programmi estetici giovanili analoghi-, opterà per la scrittura haute coutûre contro il prêt-à-porter, orientandosi verso l’exclusive e somministrando quintessenziali manicaretti letterari, ignorando deliberatamente il fast food di massa.
È un romanzo artificiale: si vedono, anzi si intravvedono, le “schede” degli appunti: la medievistica fortemente praticata e amata (in particolare ci sembrò sottinteso, in qualche punto, il libro di H.Grundmann, Movimenti religiosi nel medioevo, Il Mulino 1980 che ci capitò di leggere in quegli anni, quasi in contemporanea); i dibattiti recenti (della fine degli anni ’70 cioè) sulla “crisi della ragione” e sui paradigmi indiziari; il richiamo implicito all’abduzione di Peirce (che si affianca ai tradizionali procedimenti logici dell’induzione e della deduzione); l’accenno esplicito a Jorge Luis Borges e alla sua Biblioteca di Babele, che era nell’aria in quella fine di decennio. Insomma un romanzo iperculto, fictus, in cui la componente ludica e combinatoria prevale su qualsiasi intenzione seria, su qualsiasi disvelamento di rovello interiore o di comunicazione di proprie “idee sul mondo” se non nelle forme leggere, e per Eco molto “sapute”, del genere romanzesco che adisce al best seller di qualità (secondo la formula di Giancarlo Ferretti). Ma se gli siamo grati di ciò, di averci ossia risparmiato la sua visione del mondo, tuttavia occorre rimarcare che la narrativa alta e la letteratura d’eccezione si distaccano da ogni altra forma di intrattenimento letterario, anche quello più nobile, solo se (e quando) non rinunciano a dirci qualcosa di nuovo o di vero su tutti noi, a partire dalla esperienza individuale dell’autore; quando impongono un propriosguardo sul mondo (che diventa così «una sezione di realtà attraversata da un temperamento» per riprendere la nota formula di Zola), quando cioè insieme alle vicende di Natasha e Julien Sorel, il lettore scorge nella fabula lo sguardo di Tolstoj eStendhal e la loro intuizione del mondo, ed è quella intuizione poi che rende Tolstoj Tolstoj e Stendhal Stendhal.
Qual è qui lo sguardo di Eco? È esattamente quello di Dumas nei Tre moschettieri: non c’è. Quando la struttura è forte, è l’autore ad essere assente. Nei “gialli” – e nei plot di risoluzione più che in quelli di rivelazione (S. Chatman) è proprio l’autore il primo morto.
Se è nato da artificio, Il nome della rosa, lo è come i figli della provetta che pure girano in mezzo a noi indistinguibili da quelli che sono frutto dell’amore fisico. È un romanzo che rompe con lo sperimentalismo della neo-avanguardia per mano di un suo figlio, che sconfessa i suoi diktat e le sue equazioni (piacevole=consolatorio; leggibile=canaille; discorso indiretto libero=vecchie zie e gattopardi), che si piega, finalmente, ai valori della leggibilità nelle forme dell’intrattenimento alto, che assegna alla narrazione un valore in sé (rispettandone dunque gli oneri e i divieti e avendo cura di tutte le regole della composizione e dei vincoli redazionali tipici delle opere chiuse, del romanzo-romanzo) e che fa riprendere alla narrativa italiana, dopo i terrorismi della neo-avanguardia e il disinteresse per la narrativa tout-court della generazione del ’68, irretita dal saggismo e da altre preoccupazioni intellettuali, la pratica della narrativa affabulatoria in particolare, e, in generale, unitamente ad altre opere che uscivano in quegli anni (Seminario sulla gioventù di Busi e Altri libertini di Tondelli) una ripresa di fiducia nella letteratura come mezzo idoneo e privilegiato di consegna dei propri tormenti, turbamenti e visioni del mondo alla generazione successiva. La generazione del ’68, invece, alla letteratura “mediata” dai generi preferì, come quella del 1789, quella “immediata” della rappresentazione di sé in piazza – e successivamente nei processi. Viveva, quella generazione, in una forte e appagante vita di relazione, nella pienezza e nell’effervescenza delle occasioni mondane e sociali; non necessitò ad essa invocare, perciò, il soccorso della narcosi narrativa, che come ogni surrogato di vita è propria dei tempi di restaurazione così pure di ogni esistenza che denunci un manque de vie. E sappiamo ormai da tempo che se si vive non si scrive.
Testo di Alfio Squillaci tratto dal sito La frusta letteraria