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Nani, folletti e orchi, ma un autore fantasy racconta anche qualcosa di sé?2 min read

16 Settembre 2014 2 min read

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Nani, folletti e orchi, ma un autore fantasy racconta anche qualcosa di sé?2 min read

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Sul Los Angeles Times un autore fantasy e di fantascienza piuttosto famoso in America, ma pressoché sconosciuto in Italia, parla della componente biografica nelle opere fantasy. Jeff VanderMeer (foto in basso), 43 anni, è editore, oltre che autore, e generalmente considerato un esponente di spicco del New Weird. I suoi romanzi e racconti, tradotti in più di venti lingue, gli sono valsi importanti riconoscimenti come il World Fantasy Award, il francese Le Cagard Cosmique e il finlandese Tahtifantasia. Ha lavorato alla realizzazione di fumetti e videogiochi e tiene svariate rubriche culturali in rete. Questo per dire che non è l’ultimo arrivato. Ma veniamo al suo post più recente.

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L’autore scrive che viene difficile, alla gente, credere che un’opera fantasy sia anche un’opera autobiografica e che attraverso elfi, folletti e draghi, lo scrittore intenda parlare della sua vita. In effetti, per quanto lasci spazio alla fantasia, il genere fantasy è fatto di costanti così riconosciute da diventare quasi seriali nell’immaginario del pubblico. Cos’altro può essere un orco se non un mostro dagli occhi porcini, la mascella a ferro da stiro e l’istinto predatorio? Quale inquietudine personale potrà mai celare un elfo che rimane sempre una creatura filiforme, dalle orecchie appuntite e la lunga chioma? E poi, se l’autore vuole parlare della sua vita, perché crea nuovi universi con una loro geografia, addirittura una loro cosmogonia, invece di rifarsi al quartiere dov’è nato e cresciuto?
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L’autobiografismo c’è sempre in un’opera e può essere dichiarato come i dati anagrafici sulla nostra carta di identità, come occultato tra nani e folletti, ma non manca mai. VanderMeer parla della propria esperienza personale:  “nella mia opera si possono trovare influenze delle mie numerose visite ai fari abbandonati e tracce dell’angoscia provata dinanzi alla catastrofe ambientale della Deepwater Horizon nel Golfo del Messico”. Ma non ci sono solo i panorami, gli scenari sconfinati a ispirare un autore di genere. Abbandonando il fantasy per un momento, oggi, su Repubblica, in un’intervista, Margaret Atwood racconta che i suoi romanzi di fantascienza sono stati ispirati dalla natura che la circondava da bambina ma anche dall’educazione scientifica che le ha trasmesso la sua famiglia di ricercatori. E cosa dire del romanzo fantascientifico L’uomo che cadde sulla Terra? Se leggete la vita del suo autore, Walter Travis, troverete evidenti analogie tra lui, di natura cagionevole e abbandonato dai genitori, e l’alieno solitario e fragile.
La verità è che anche nell’opera fantasy più studiata a tavolino, scappa qualcosa di personale e l’autore lascia delle parti di sé. L’unico modo per rinnovarsi e distinguersi da ciò che ci circonda è attraverso se stessi. E questo un bravo autore, sia fantasy o di altro genere, lo sa per primo.

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