Se avete amato "Il vecchio e il mare" non leggete questo articolo6 min read
Reading Time: 5 minutesIl romanziere e il poeta sono figure con cui ci si identifica volentieri. Usano la lingua per creare. Plasmano destini sulla pagina. Trasmettono emozioni. Invece il critico è una figura letteraria che ha senz’altro meno appeal. Del resto cosa fa di eccezionale, un critico letterario? Niente. Legge e giudica, relega, a volte sbagliando, un’opera all’inferno o al paradiso, decretando la sua fortuna editoriale. Il critico è una cosa che potremmo fare tutti. È un mestiere che non dovrebbe esistere. Sono sicuro che questa sia un’opinione particolarmente diffusa, soprattutto ai nostri tempi, quando la rete ci offre l’occasione ( e la presunzione) di giudicare, interpretare e quindi criticare pubblicamente, senza, peraltro, beccare un centesimo in compenso.
Eppure ci sono critici che sanno criticare meglio di altri e sfoderano così tanto acume da ridimensionare autori e libri che avete sempre tenuto in alta considerazione.
Ad esempio, quando lessi Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, lo considerai un bellissimo romanzo breve, emozionante; un libro che con poche parole e una vicenda semplice racchiudeva sé molteplici significati. Poi mi sono imbattuto nella critica che ne fece un celeberrimo critico letterario e cinematografico, Dwight MacDonald. In poche parole ridusse quello che io avevo sempre considerato un capolavoro a un libercolo mediocre. Mi convinse che una prosa che io avevo reputato sintetica perché epigrafica e perfetta, lo era perché povera e, in sostanza, mi spinse a considerare il romanzo per quello che ancora oggi penso sia: uno dei peggiori del grande autore americano. L’opera di una vena quasi prosciugata.
Lessi la recensione su un sito, la Frusta letteraria che ne propone altre, sempre firmate da grandi letterati. Oggi la copio e incollo qui sotto. Si tratta di un estratto da Against the American Grain, in italiano Controamerica, pubblicato da Rizzoli, Milano, 1969, a cura di Claudio Gorlier.
Che dite, anche secondo voi MacDonald coglie nel segno e Il vecchio e il mare non è questo capolavoro?
– – – – – – – – – –
Il vecchio e il mare fu (appropriatamente) pubblicato per la prima volta daLife nel 1952. Vinse il premio Pulitzer nel 1953 e aiutò Hemingway a vincere il Premio Nobel nel 1954 (i giudici parlarono della sua « maestria nel formare lo stile dell’arte della narrazione moderna»). È un libro scritto nella prosa pseudo-biblica che Pearl Buck usò in La buona terra, uno stile che sembra possedere un fascino maligno per persone di media cultura – anche Miss Buck ci ha ricavato un Premio Nobel. Ci sono soltanto due personaggi che non vengono individualizzati in quanto vorrebbero assurgere a significato universale. In effetti non vengono neppure chiamati per nome, sono semplicemente « il vecchio» e « il ragazzo » – penso sia stato un errore aver identificato il pesce in un marlin, se è vero che di solito lo si designa come « il grande pesce». Il dialogo è nello stesso tempo caratteristico (democrazia) e solenne (letteratura). «Dormi bene, vecchio» dice il ragazzo; oppure, alternativamente, «Svegliati, vecchio». È anche molto poetico, come quando parla il Ragazzo: («Ricordo la coda che sbatteva e rintronava […] e il frastuono che facevi mentre lo prendevi a mazzate come quando si abbatte un albero e l’odore dolce del sangue che avevo addosso». (Anche il Vecchio resta colpito da questa cadenza. « Te lo ricordi davvero, o è perché te l’ho raccontato? » domanda.) Nei famosi dialoghi sul baseball abbiamo una fusione di Letteratura e Democrazia:
« Il grande Di Maggio ha ritrovato se stesso. »
« Ci sono altri uomini nella squadra. »
« Si capisce. Ma tutto dipende da lui. Nell’altra Lega, tra Brooklyn e Philadelphia sceglierei Brooklyn. Ma poi ripenso a Dick Sisler… Non è possibile che gli Yankees perdano. »
« Ma ho paura degli Indians di Cleveland.»
« Abbi fede negli Yankees, figlio mio. Pensa al grande Di Maggio. »
E questo da parte dell’uomo che in pratica inventò il dialogo realista.
È deprimente mettere a confronto questa Storia con L’invitto,
una storia di toreri che Hemingway scrisse negli Anni Venti quando, come direbbe lui, si stava vittoriosamente battendo con loro. Hanno entrambe lo stesso tema: un uomo del passato, oggetto di scherno e commiserazione, di fronte alla sua ultima chance: perde (il pesce viene mangiato dagli squali, il torero è trafitto dalla cornata del toro) ma la sua sconfitta è una vittoria morale, perché ha dimostrato che la sua volontà e il suo coraggio sono ancora intatti. Il contrasto inizia nei passi d’apertura:
Manuel Garcia salì le scale fino all’ufficio di Don Miguel Retana. Posò in terra la valigia e bussò alla porta. Nessuno rispose. Manuel, in piedi sul pianerottolo, sentì tuttavia che nella stanza c’era qualcuno. Lo sentì attraverso la porta.
Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni ormai che non prendeva un pesce. Nei primi quaranta giorni lo aveva accompagnato un ragazzo, ma dopo quaranta giorni passati senza che prendesse neanche un pesce, i genitori del ragazzo gli avevano detto che il vecchio era decisamente e definitivamente salao che è la peggior forma di sfortuna, e il ragazzo li aveva ubbiditi andando in un’altra barca che prese tre bei pesci nella prima settimana. Era triste per il ragazzo veder arrivare ogni giorno il vecchio con la barca vuota e scendeva sempre ad aiutarlo a trasportare o le lenze addugliate o la gaffa e la fiocina e la vela serrata all’albero. La vela era rattoppata con sacchi da farina e quand’era serrata pareva la bandiera di una sconfitta perenne.
Il contrasto continua disciplinato – affaristico understatement opposto al ronzio del pastiche della parabola, verboso e sentimentale (« la bandiera di una sconfitta perenne », quasi per darci di gomito e spingerci a simpatizzare). E tutti quegli « e ».
L’invitto è lungo poco più di un terzo di Il Vecchio e il mare; non soltanto vi accadono molte più cose ma si sente anche che accade più di quanto venga espresso, per così dire, mentre Il veccho e il mare dà l’impressione opposta. L’invitto ha quattro personaggi, ognuno con un nome e ciascuno definito attraverso le sue parole e le sue azioni; nel Vecchio non c’è nessuno, soltanto due tipi Eterni, Universali. Veramente per tre quarti ce n’è uno solo, poiché Il Ragazzo non segue il Vecchio nella pesca. Forse un Kafka sarebbe riuscito a tirarci fuori qualcosa, ma nello stile realistico di Hemingway il risultato è monotono. « Poi cominciò ad avere pena del grande pesce »: roba del genere, insomma. Qualche volta l’autore, piuttosto disperato, lo fa parlare ai pesci e agli uccelli. Parla anche alla sua mano: « Come va, mano? ». In L’invitto l’emozione sorge naturalmente dal dialogo e dall’azione, mentre nel Vecchio, dal momento che non c’è molto dell’uno e dell’altra, l’autore deve cavarla fuori a fatica. Qualche volta riporta le improbabili meditazioni del pescatore: È un pesce grosso e devo vincerlo, pensò. […] Grazie a Dio non sono intelligenti come noi che li uccidiamo; anche se sono più nobili e più capaci». Qualche volta l’autore ci dà un’informazione riservata: «Era troppo semplice per domandarsi quando aveva raggiunto l’umiltà. Ma sapeva di averla raggiunta ». (Un umile che sa di avere raggiunto l’umiltà mi sembra una contraddizione in termini). Questo costante lavoro di commento redazionale – peccato elementare contro il quale ero solito mettere in guardia la mia classe diCreative Writing alla Northwestern University – contrasta in modo singolare col metodo asciutto, no-comment, che rese famoso il giovane Hemingway. «Sono uno strano vecchio », dice l’eroe al Ragazzo. Devi darcene la prova, vecchio, non parlarne soltanto.