Amate il brivido? Leggete "Incipit" di Diego Castelli10 min read
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Quando un serial killer fa veramente paura? Quando non si limita a uccidere, ma attraverso l’omicidio comunica un’ossessione, una pulsione malata che spesso si associa alle nostre paure più ancestrali. Norman Bates (Psyco) veste i panni di sua madre prima di uccidere, Hannibal Lecter (Il silenzio degli innocenti) divora le sue vittime, Thomas Bishop (Io ti troverò), sfoga la sua misoginia trucidando orrendamente solo donne. Poi c’è Frankestein, serial killer di un romanzo caricato su Amazon poco più di un mese fa e che ho scoperto quest’estate, leggendo le tante anteprime che avete pubblicato su Penne Matte. Il romanzo si intitola Incipit, autore Diego Castelli, esordiente (qui la pagina Facebook).
Il modus operandi di Frankestein è tanto semplice quanto terrificante: uccide più persone per sezionare i loro cadaveri e cucire fantocci composti da parti di corpi differenti. Per chi deve indagare – in questo caso il detective Frank Anderson, – il peggior incubo immaginabile: cinque cadaveri al prezzo di uno.
La premessa c’è, ma non basta a fare un buon thriller. E allora cosa mi ha intrigato del romanzo di Castelli? La scrittura, ironica, rapida, sintetica, che segue l’esempio dei maestri del thriller americano (i primi che mi vengono in mente sono Lansdale e Leonard), cadenzata da dialoghi fulminanti. Poi i personaggi, soprattutto quello del detective che si diletta a scrivere, quando non deve mostrare il distintivo. I capitoli del romanzo, infatti, sono intervallanti dalle tante prove letterarie di Anderson, puntualmente lasciate incompiute. Insomma, non vi annoierete a leggere Incipit o almeno a me non è successo.
Ho contattato via email Castelli, per fargli una breve intervista.
Ecco cosa ci racconta di sé e della sua prima opera letteraria.
Ciao Diego: partiamo da te. Raccontaci chi sei e come sei approdato alla scrittura.
Ciao a tutti e grazie per l’ospitalità. Sono nato a Milano ormai 32 anni fa, e ho sempre vissuto qui. Sono cresciuto sul mio divano con la passione per il cinema e la tv, e quando è stato il momento di scegliere un percorso di studi ho deciso di laurearmi in Televisione e Cinema presso l’università IULM di Milano. E da allora il lavoro e le passioni più o meno sono sempre quelle.
L’amore per la scrittura è qualcosa che ho sempre avuto dentro, anche se mi ci sono dedicato con assiduità solo negli ultimi anni. Credo che la cosa che più mi attrae dello scrivere sia la possibilità di creare potenzialmente qualunque cosa partendo dal niente, solo con la tua immaginazione.
Sul tuo profilo Facebook ho letto che lavori per la rete Iris, cosa fai esattamente?
Ho iniziato a lavorare a Mediaset circa sei anni fa, e da poco più di un anno sono il Channel Manager di Iris. In pratica, in accordo con il direttore e vicedirettore della rete, scelgo la linea editoriale del canale, gestendone l’offerta cinematografica (Iris trasmette principalmente film) con particolare riferimento alla prima serata. Per farla brevissima: se alla sera vi sintonizzate su Iris, il film che vi trovate di fronte l’ho scelto io.
Ho visto che scrivi per Serial Minds. Ci vuoi parlare di questo progetto in rete?
Serial Minds è nato quattro anni fa, con la complicità di un vecchio amico, Marco Villa, che un pomeriggio mi ha chiesto: “Ti va di fondare un blog dedicato alle serie tv?” Da allora abbiamo scritto centinaia di articoli e ci siamo creati un piccolo nome nel mondo degli appassionati di telefilm.
Immagino a questo punto che ti piacciano le serie tv. genere preferito?
Non ne faccio tanto una questione di genere, quanto di approccio. Mi piacciono le serie che creano un mondo pieno di tensioni, in cui i personaggi sono costretti a gestire situazioni potenzialmente molto più grandi di loro. Breaking Bad, Sons of Anarchy, Lost. E mi piace la creatività nuda e cruda: per questo sono anche un divoratore di serie comiche, dove spesso la pura creatività trova mille valvole di sfogo.
Le serie tv sembrano aver influito sul tuo romanzo, Parlo soprattutto di quelle americane, come CSI, è così?
Le serie tv hanno avuto enorme influenza e in molti passaggi ho proprio voluto lasciare degli omaggi più o meno evidenti per gli appassionati di telefilm. Detto questo, forse CSI non è l’esempio migliore: paradossalmente, non sono un grande fan delle serie d’investigazione, per lo meno di quelle verticali, con un caso diverso ogni puntata. Ne apprezzo certamente la costruzione precisissima, ma ho sempre l’impressione che sia tutto troppo svelto e quindi meno appassionante. Per questo preferisco di gran lunga gli show orizzontali, alla The Killing, in cui un unico caso viene sviscerato e approfondito per tutta una stagione.
Ora passiamo al tuo libro. Non forniremo un grande spoiler se parliamo del modus operandi dell’assassino, riscontrabile già nelle prime pagine: uccide le persone per cucire i pezzi assieme e formare cadaveri-fantocci. Da quale abisso hai pescato un’idea tanto inquietante?
In realtà è una scelta nata come conseguenza di un progetto più grande. Avevo in mente un assassino con un piano preciso (che per ovvie ragioni è meglio non svelare qui), e solo successivamente ho cercato un modus operandi che fosse d’impatto immediato e, contemporaneamente, adeguato a rispondere a quella esigenza iniziale. Quali siano poi le turbe nascoste che mi hanno portato a scegliere specificamente quella pratica sanguinolenta, forse non ti so rispondere. E forse non voglio nemmeno saperlo!
Secondo te come deve essere un serial killer per fare veramente paura?
Non credo ci sia una regola di base, ogni autore può trovare un suo modo di rendere inquietante anche la scelta apparentemente più banale. Ciò detto, nel mio gusto personale è importante che un serial killer non sia solo una specie di animale che “si ciba” di prede ben definite, trasformando la sua ricerca in una semplice caccia al mostro. Preferisco un serial killer che lasci ampi margini di incertezza sulle sue motivazioni e sulla sua intelligenza. Mi piace l’idea che nessun personaggio (e quindi nessun lettore) possa sentirsi davvero al sicuro. Come se il killer potesse colpire chiunque, da un momento all’altro.
Quali sono le regole che ti sei imposto per concludere il tuo romanzo, a parte il talento che possiedi?
Quando ho preso la decisione di tentare di scrivere un romanzo sapevo solo due cose: che non potevo procedere a caso, e che dovevo essere pronto a darmi una tabella di marcia. Per scrivere un romanzo, a maggior ragione un romanzo di genere, bisogna sapere almeno a grandi linee dove si vuole andare a parare, quindi le prime settimane le ho spese esclusivamente nell’architettare la storia, nello strutturare la narrazione, nel delineare i personaggi. La scrittura vera e propria è arrivata solo dopo. E una volta cominciato, la vera sfida era non farsi distrarre dagli impegni quotidiani e dalle giornate-no, che capitano a tutti. Insomma, se vuoi scrivere un romanzo bisogna avere soprattutto la voglia di impegnarsi per finirlo.
Chi ti ha influenzato in letteratura?
Mi trovo di nuovo nell’imbarazzo di dire che non sono mai stato un assiduo lettore di gialli. Se parliamo di letteratura mainstream ho sempre preferito le avventurone alla Ken Follett o Wilbur Smith, senza però dimenticare i John Grisham o i Jeffrey Deaver. Ma ho sempre apprezzato molto certi classici, sempre di genere, come Poe o Philip Dick. In generale, da questi romanzi ho cercato di imparare l’importanza per una struttura forte e per il ritmo incalzante. Torniamo di nuovo allo stesso punto: sono convinto che se vuoi scrivere un romanzo di genere, come nel mio caso, puoi anche avere la legittima aspirazione di dargli uno spessore letterario, ma se prescindi da certe regole e certi codici c’è il concreto rischio di dar vita a un pastrocchio arrogante.
Ora veniamo alle ambientazioni: sono reali? Sembra che tu conosca bene gli Stati Uniti.
La città in cui si muove il protagonista è completamente inventata. Sono stato più volte negli Stati Uniti, e di certo qualcosa mi è rimasto impresso, ma credo che ancora una volta l’ispirazione sia più che altro cinematografica, televisiva e letteraria. Per questo ho scelto una città inventata: potevo inserire elementi che sapevo essere verosimili, senza per questo rischiare di dire aperte sciocchezze su posti reali che non conosco e che non avevo la possibilità di approfondire in prima persona. In fondo, credo che quando si parla di fiction non serve che quello che scrivi sia “vero”, serve che sia “verosimile” quel tanto che basta ad appassionare il lettore senza interrompere la sua concentrazione e le sue emozioni.
Come mai hai scelto di autopubblicarti in rete?
Ormai abituato ai feedback immediati tipici di internet, non mi andava di spedire cento manoscritti ad altrettante case editrici già sommerse dalle proposte, per poi aspettare per mesi una risposta che magari non sarebbe mai arrivata. Ho preferito mettermi in gioco in prima persona, ricevendo subito qualche opinione e consiglio dal pubblico, nella consapevolezza che ormai selfpublishing ed editoria tradizionale non sono nemici: ho quasi più possibilità di raggiungere un editore interessato così (offrendo già un certo numero di copie vendute e di feedback positivi) piuttosto che proponendomi come autore esordiente di cui nessuno ha mai sentito parlare. E se non dovesse succedere niente, intanto ho ricevuto supporto, suggerimenti e complimenti da tante persone che non conoscevo e chi mi hanno reso orgoglioso del mio lavoro.
Hai spedito il romanzo a qualche casa editrice tradizionale?
No, ho preferito evitare del tutto questa strategia, proprio per non ridurre il selfpublishing a una soluzione di ripiego. Paradossalmente, potrei decidere di spedirlo ora, quando ho già ricevuto dei feedback positivi che posso mostrare agli editori tradizionali come attestati di potenzialità del romanzo.
Quanto ti ha preso la stesura di Incipit?
La prima stesura mi ha portato via più o meno un anno e svariate ore di sonno. Poi è iniziata una fase di revisione approfondita, in cui ho fatto leggere il romanzo a diverse persone che mi hanno dato consigli utili, e in cui ho elaborato la copertina insieme al mio amico Fabrizio Majerna. Diciamo che, tutto compreso, la gestazione di Incipit è durata un anno e mezzo.
Quanto c’è di te – e magari dell’ansia di scrivere e riscrivere – nel protagonista?
C’è moltissimo di me nel protagonista. Non solo nel modo di parlare e pensare, ma anche nelle passioni e nei sogni. Molti amici mi hanno parlato della strana sensazione di leggere il romanzo sentendo quasi la mia voce che pronuncia le parole. In questo senso, le ansie del protagonista legate al desiderio di scrivere sono state anche le mie, e sono anzi precedenti alla scelta di scrivere un giallo-thriller. E’ come se i desideri, le paure e le ansie del protagonista fossero precedenti alla storia che li contiene. Il giallo è il vestito che ho cucito addosso a questioni di cui volevo già scrivere, a prescindere dal tipo di storia che le avrebbe contenute.
Niente Italia in Incipit. Una scelta precisa o semplicemente la patria della crime novel è l’America?
E’ una scelta che nasce da una presa di coscienza molto personale. E’ vero che negli ultimi anni vanno molto i thriller “locali” (si pensi al successo dei gialli nordici), cosa che poteva spingermi verso una storia ambientata in Italia. Ma poi ho dovuto accettare il fatto che, volente o nolente, la mia formazione culturale e mediale è soprattutto nordamericana. Mi sono reso conto che ambientando la storia negli Stati Uniti sarei risultato più credibile (prima di tutto a me stesso) che non sforzandomi di seguire un flusso già ben avviato in cui, però, non mi sarei sentito a mio agio, rischiando così di commettere errori grossolani. D’altronde la regola è sempre quella: scrivi di quello che conosci (anche se chi ha letto il romanzo sa che il mio protagonista non è troppo d’accordo…).