Facciamo il punto sul punto e virgola5 min read
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Che cos’è il punto e virgola? Secondo Wikipedia, è un segno di interpunzione corrispondente “ad una pausa di valore intermedio tra quella più lunga del punto fermo e quella breve della virgola“. L’Accademia della Crusca, istituzione vecchia quasi cinque secoli che si occupa di linguistica e filologia, scrive che “il suo uso spesso dipende da una scelta stilistica personale. Si adopera soprattutto fra proposizioni coordinate complesse e fra enumerazioni complesse e serve a indicare un’interruzione sul piano formale ma non sul piano dei contenuti“. Da entrambe le voci, deduciamo che il punto e virgola più che una regola è una scelta. Non è un’interpunzione “obbligata” come può esserlo il punto, la virgola o il punto interrogativo, ma relativa che risponde alle necessità e allo stile del singolo autore.
Di sicuro è un segno d’interpunzione ambiguo, poco pratico, effimero, difatti la sua origine appartiene a una lingua arcaica e complessa come l’Italiano. Il primo a introdurlo fu lo stampatore Aldo Manuzio nel Cinquecento.
Il rapporto dell’inglese, lingua pratica e sintetica, col punto e virgola è stato altalenante attraverso i secoli. Sempre Wikipedia mostra un grafico in cui è spiegato l’uso che se ne è fatto nei libri in inglese dal Cinquecento a oggi.

Dopo un picco massimo nell’Ottocento, il suo utilizzo ha cominciato a calare. Oggi non sono pochi gli autori statunitensi che lo ripudiano. Kurt Vonnegut, uno dei grandi del Novecento americano (Mattatoio numero cinque, Madre notte), scrisse un prontuario per aspiranti scrittori dove metteva in guardia: “non usate i punto e virgola. Sono ermafroditi travestiti senza significato. Mostrano solo che siete stati al college“. Un altro a cui non piace il punto e virgola è Cormac McCarthy, autore di Cavalli selvaggi e La strada che si fa un vanto di non averlo mai usato riducendo la sua interpunzione a punti quando necessario, pochissime virgole e niente virgolette.

Non è difficile comprendere l’avversione degli autori americani per il punto e virgola. La loro è la lingua oggettiva per eccellenza. Il loro massimo esponente letterario degli ultimi cent’anni rimane Ernest Hemingway, l’autore del Vecchio e il mare che sosteneva; “quel che si scrive dev’essere la punta dell’iceberg“, ovvero non bisogna scrivere tutto, solo il necessario per evocare le emozioni nel lettore. In nessun caso bisogna informare il lettore sulle emozioni che dovrebbe provare. Il punto e la virgola sono sufficienti.

Questa prosa che tende più a sottrarre che ad aggiungere per ridurre tutto all’osso, di cui gli americani sono maestri e che è alla base di molti best seller è poi la stessa di riferimento di chi lavora in una casa editrice. Recentemente leggevo un manuale di scrittura di Renato Di Lorenzo, Scrivere best seller. Regole e tecniche della narrazione dove l’autore consiglia a chi scrive di ridurre al massimo gli aggettivi e gli avverbi laddove nomi e verbi bastano a delineare una situazione. In punteggiatura, l’equivalente dell’avverbio è il punto e virgola, secondo la scuola americana del “less is more” va tolto anche quello, in quanto non necessario. Sottrarre e “asciugare” il proprio manoscritto, sostiene Di Lorenzo, non solo semplifica le cose agli editor, ma li spinge a considerare la nostra opera più seriamente.
Sicuramente la prosa di Hemingway, come quella di tanti autori americani di successo, rimane un modello per chi voglia scrivere un romanzo. E sicuramente, per dare il giusto ritmo alla propria narrazione, è meglio imparare quando mettere i punti e le virgole piuttosto che i punti e virgola. Però, mi chiedo: si tratta di una regola assoluta che chiunque dovrebbe seguire?
Consideriamo i due incipit qui sotto:

Appartengono il primo (a sinistra) a un racconto, San Giorgio in casa Brocchi, il secondo (a destra) a un romanzo, La meccanica, del medesimo autore, Carlo Emilio Gadda. Il punto e virgola si ripete due volte nel primo, e ritarda il punto al termine della pagina; il secondo contiene un punto e virgola tra l’altro prima della e. Non solo, nell’incipit della Meccanica, la regola dell’iceberg di Hemingway è addirittura capovolta: l’autore non fornisce fatti oggettivi, sembra voler dare un resoconto delle sue emozioni (“aggrovigliata paura delle giungle immense”) senza indicare alcuna coordinata di spazio o tempo. Chi conosce l’opera di Gadda, sa che è piena di “proposizioni coordinate complesse e enumerazioni complesse“, insomma quelle frasi che non chiudono il periodo, se mai lo estendono e devono essere ritmate da una interpunzione che sia “pausa di valore intermedio tra quella più lunga del punto fermo e quella breve della virgola“. Ovvero, il puto e virgola.
Consideriamo l’incipit di un’altra opera:

Ci sono quattro punti e virgola, a dire il vero è tutta l’interpunzione a soffrire una specie di fibrillazione piena com’è di punti esclamativi. I dati oggettivi sono pochi. Il lettore è travolto dal flusso emotivo dell’autore, Louis Ferdinand Céline, quella sopra è la prima pagina del suo capolavoro: Viaggio al termine della notte.
Stando al parere di Hemingway e Vonnegut, come all’impostazione di molte scuole di scrittura creativa, la Meccanica, San Giorgio in casa Brocchi e Viaggio al termine della notte sono tre prove letterarie da bocciare senza nemmeno leggerle per intero. Eccesso di aggettivi, superiorità del punto di vista dell’autore sul dato oggettivo, interpunzione incontrollata. Un editor con un minimo di buon senso cestinerebbe questa roba all’istante.
Che fare del punto e virgola allora, tenerlo oppure no?
Forse non c’è una risposta. È ovvio che se dovessimo scegliere un maestro da seguire per un aspirante autore, punteremmo su Hemingway più che su Gadda. Nel primo tutto è chiaro, i dialoghi sono perfetti, i personaggi così ben modellati che sembrano vivere di vita propria e il lettore si scorda di stare leggendo. Il secondo non ci fa dimenticare mai che è uno scrittore e ciò che stiamo affrontando è un’opera d’espressione che si basa sulla parola scritta e le sue infiniti varianti, i dialetti, le possibilità grammaticali eccetera. Però abolire il punto e virgola come propone qualcuno, secondo me non è il caso.
La lingua, se proprio deve accorciarsi, si accorcia da sé e quando noi ce ne accorgiamo è già troppo tardi. Vive di vita propria, muta ciclicamente riflettendo i tempi correnti. Le parole e le punteggiature muoiono di morte naturale.
Se tu, aspirante scrittore, senti l’esigenza, anche minima, un lieve pruritino, diciamo, di aggiungere qualcosa al già detto, di concederti una piccola digressione e sovvertire per un attimo le regole del perfetto autore di best seller, lasciati guidare dal tuo istinto e cercalo sulla tastiera: il punto e virgola, guarda caso, c’è ancora.