Una brezza fredda e lamentosa mi sferzava il
volto e strattonava i capelli.
Il suo uggiolare sommesso era un blasfemo
recitare, che martoriava le orecchie, straziava
la pelle. Asciugai gli occhi e la bocca
dall’umidità gelata, e tornai a spingere
puntando i piedi e inarcando la schiena. Il
sarcofago di pietra antica non accennava a
muoversi o a barcollare. Incrostato da millenni
di muschi, edere velenose e radici friabili,
appariva fragile come un vecchio canuto,
eppure era inamovibile, era il fulcro del mondo.
Sentivo lo sguardo beffardo delle Fate alle mie
spalle: stiletti gelidi nella schiena, desideri
inumani, insondabili per un cuore mortale. Ma
io non avrei ceduto, non mi avrebbero domato.
La pioggia obliqua, inviata ad arte da un cielo
senza stelle, rendeva il terreno scivoloso.
L’erba vermiforme si contorceva ad
avvinghiare le mie caviglie, i miei piedi nudi.
Sbuffai e imprecai. Nessun uomo, gridai alle
tenebre, o spirito o dio, può fermarmi in questo
momento…
***
Aprii gli occhi nel crepuscolo antracite di un
giorno d’estate. Gocce minute, ma insistenti,
battevano sulle imposte socchiuse del mio
studiolo, producendo un fruscio mutevole di
risacca. In giornate come quella comprendevo
quanto la mia casa fosse inquietante. Se non
avessi collezionato io stesso ogni libro
massiccio, ogni oggetto di rame e pietra, ogni
ermetica pittura, ne sarei stato terrificato,
poiché la luce stanca strappava da essi ombre
smorte, slavate, fantasmi di luce in agonia.
Erano i resti di una vita intera di alienanti
ricerche che avevano raggiunto una fine, al
pari di chi si getta da una rupe e trova una
risposta inevitabile. Mancavano ancora tredici
giorni e tredici ore all’incontro, così come era
scritto nei sogni, e avevo il tempo di
prepararmi, di pentirmi, di angosciare
ulteriormente il mio spirito, nato solo e
divenuto unico.
Scesi al piano terra, attraversai la minuscola
cucina e mi diressi in quello che, nell’idea dei
precedenti proprietari, era un salotto per
accogliere ospiti e amici. Ora ospitava solo il
Cerchio.
Un paio d’ore di meditazione, consigliai a me
stesso parlando all’aria, mi avrebbero di certo
fatto bene. Il suono della mia voce mi parve
distante e scialbo, una bugia, una
rappresentazione. Erano parole stanche, scritte
da un autore senza talento e recitate da un
dilettante in un teatro vuoto. Mi fermai sulla
porta, perché sentivo nelle orecchie il suono
del niente e nel cuore la consapevolezza della
solitudine che il mio compito imponeva: secoli
di solitudine. I miei predecessori, mi chiesi,
provarono le mie stesse sensazioni, lo stesso
smarrimento? Avrei saputo ancora distinguere
i miei ricordi dai loro? O mi sarei perso, un
rivolo tra tanti, nell’immensità del Sapere? Ero
paralizzato dal terrore ma, al tempo stesso,
esaltato e frenetico. Non avevo rinunciato a
ogni piacere e compagnia solo per far tacere le
domande che mi strappavano al sonno? Per
guardare ciò che davvero è il mondo? Non
avevo, forse, sprangato le mie imposte per
divenire invisibile e sgattaiolare tra le pieghe
della sapienza, carpirne i sussurri, risolverne i
rebus? Il potere sopra la materia era il mio
scopo, la conoscenza assoluta della Verità la
mia meta. A un passo dallo schiantarmi al
suolo non sapevo più piangere di gioia o di
disperazione, avvertivo solo il bruciore dei
miei occhi ormai secchi. Avanzai nella stanza,
dove nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di
seguirmi, e sedetti nel Cerchio.
Non ottenni pace.
(continua...)